INTERVISTA ESCLUSIVA - Il preparatore dei portieri è rientrato da Qinhuangdao ieri sera, con tutta la famiglia: “Stiamo tutti bene, la zona del virus era lontanissima da noi. Facevo l’allenatore dei portieri Under 19 in un centro federale cinese, con 800 ragazzi e uno staff internazionale. Ma adesso mi piacerebbe ricominciare dall’Italia”
È arrivato ieri da Pechino con uno degli ultimi voli, a poche ore dai primi casi “italiani” di coronavirus, che hanno imposto lo stop dei voli tra Italia e Cina: “Siamo arrivati ieri notte a Malpensa, adesso siamo a Torino e stiamo tutti bene. E per il momento ce ne stiamo qui, non ci muoviamo”.
Un passato da portiere professionista nelle giovanili della Juventus e fino in serie B con il Piacenza, prima che un brutto infortunio ne stroncasse la carriera; un presente da preparatore dei portieri, per quattro anni proprio con i giovani bianconeri: Fabrizio Capodici lavora da un anno per la Cina Football Accademy, come allenatore dei portieri dell’Under 19 nel centro federale di Qinhuangdao.
Fabrizio, siete scappati per l’emergenza legata al coronavirus?
“In realtà noi eravamo molto lontani dall’epicentro dell’epidemia, ci sono circa tremila chilometri tra Wuhan e Qinhuangdao, anche se è vero che le distanze in Cina sono un’altra cosa, ogni volta che ti sposti per fare una partita devi prendere l’aereo. Comunque, il centro federale era chiuso per il capodanno cinese ma ci è arrivata una comunicazione che non si sapeva quando avrebbe riaperto. Noi, ripeto, eravamo tranquilli, ma per evitare ogni problema abbiamo preferito tornare”.
Cosa facevi, di preciso, in Cina?
“Facevo l’allenatore dei portieri Under 19 del centro federale di Qinhuangdao: in Cina ce ne sono tre, il nostro è il più grande. Una struttura impressionante, con palestre, campi e strutture all’avanguardia, in cui vengono ospitati circa 800 ragazzi che lì vivono, studiano e si allenano”.
Tantissimi ragazzi.
“Sì, ma per essere in Cina neanche così tanti…”
Si vede che lo stato cinese sta investendo tanto sul calcio.
“Sì, sono strutture completamente pagate e gestite dallo stato. È chiara l’intenzione di far crescere il movimento calcistico a partire dalla base, infatti la maggior parte degli allenatori arrivano da tutto il mondo: Brasile, Spagna, Inghilterra, nel mio staff eravamo due italiani, un venezuelano e un cinese. Ci sono tanti ragazzi di talento ma hanno molto da lavorare, anche perché a livello prettamente sportivo manca un po’ di organizzazione e di comunicazione”.
E tu come ci sei arrivato?
“Il primo contatto è stato su LinkedIn. Poi ci siamo sentiti, hanno chiesto informazioni, hanno voluto dei video dei miei allenamenti, per fortuna ho un trascorso abbastanza importante sia da calciatore che da preparatore. Alla fine mi hanno fatto una proposta importante e ho accettato”.
Sei ancora sotto contratto con la federazione cinese?
“A febbraio faccio un anno preciso, ma già a dicembre avevo rinnovato per due anni, prima che scoppiasse questa situazione. Adesso vedremo come fare, la mia intenzione è rimanere qui in Italia, impegnarmi con la mia scuola di individual per portieri Keeplay e cercare una nuova società con cui lavorare. Anche perché mia moglie non vuole tornare”.
Hai anche mandato un ragazzo in prova in Italia.
“Sì, un ragazzo che meritava di vivere un’importante esperienza formativa. Sinceramente non capisco le polemiche che ne sono scaturite, se un ragazzo merita chi se ne importa se è italiano o cinese? Trovo che ci sia troppa invidia nel mondo del calcio, ed è veramente assurdo che nel 2020 il razzismo sia ancora un problema. In Cina non esiste, anzi noi stranieri eravamo quasi un’attrazione, a mio figlio che ha i capelli biondi facevano le foto”.
Eri lì con tutta la famiglia.
“Sì, mia moglie e i miei due figli, una bambina di cinque anni e un bambino di due”.
Come vi trovavate, fuori dal campo?
“Qinhuangdao è una metropoli moderna ma sul mare, non c’è neanche troppo inquinamento, si vive bene. Il campo era attaccato a casa, ci andavo a piedi. E tra l’inglese e i traduttori di cinese, ce la cavavamo in tutto. Io lavoravo in uno staff internazionale, pieno di europei, quindi è stato facile anche stringere delle amicizie. Era un po’ più complicato per mia moglie e i bambini: Vanessa, per esempio, frequentava una scuola d’arte, ma per lei non riuscire a comunicare con le altre bambine era un problema. Un altro motivo per tornare”.
Una bella esperienza, quindi.
“Molto positiva, sì. Fortunatamente ho pochi rimpianti nella mia vita, non andare sarebbe stato un rimpianto: chissà cosa sarebbe successo se…”
Bella a parte gli ultimi giorni. Immagino ci sia stata tanta preoccupazione.
“Preoccupazione sì, anche se eravamo molto lontani dal problema. Più che altro la difficoltà delle comunicazioni ha creato un po’ di allarme, notizie interne non ce ne sono molte e comunque sono di non facile accesso, ci informavamo dai telegiornali e dai siti italiani. Ma a generare ansia erano anche le telefonate in arrivo dall’Italia, anche quando dovevamo partire ci dicevano che avrebbero chiuso i voli. Insomma, è andata bene così”.
Rassicuriamo tutti ancora una volta: voi state bene.
“Abbiamo fatto tutte le analisi del caso, anche in aeroporto: stiamo tutti bene, che è la cosa più importante”.