Sabato, 23 Novembre 2024
Mercoledì, 29 Settembre 2021 17:33

Stefano Guidoni: “A Pino ho vissuto 7 anni meravigliosi, si respirava un’aria diversa. Ma nel mondo del calcio non è cambiato niente”

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Foto PSG Calcio Foto PSG Calcio

INTERVISTA ESCLUSIVA - Orgoglio e amarezza nelle parole dell’ex direttore tecnico del PSG, 140 gol nella sua carriera da professionista: “A bocce ferme, sto riflettendo sugli ultimi anni: avevamo delle idee, abbiamo provato a metterle in pratica, almeno in parte ci siamo riusciti. Ma ci sono troppe cose che non mi piacciono nel sottobosco del calcio dilettantistico”


70 reti in 283 presenze in serie B, la categoria in cui ha giocato di più, in una carriera con due sole presenze in serie A ma altre decine di gol (140 in totale) in tutte le categorie. È cresciuto nel settore giovanile della Juventus, dove a fine carriera è tornato come allenatore, sempre nelle giovanili. Nelle ultime sette stagioni è stato il direttore tecnico e l’anima del Pino Torinese, nel frattempo diventato PSG, oltre che formatore per la FIGC. Stiamo parlando ovviamente di Stefano Guidoni, che ci ha concesso un’intervista esclusiva.

Stefano, questa estate, senza troppo clamore, hai detto basta. È tempo di fare una prima valutazione?
“Sono stati sette anni meravigliosi. Ora che l’esperienza è finita, devo avere la lucidità per guardarla da fuori, anche se non è facile perché la parte emotiva è ancora viva: avevamo delle idee, abbiamo provato a metterle in pratica, almeno in parte ci siamo riusciti”.

In cosa era differente il PSG da tutte le altre società?
“Era l’ambiente, la vera differenza a Pino, almeno nella Scuola calcio. Era l’aria che si respirava tra bambini, genitori e istruttori nel modo di interpretare il lavoro, se vogliamo chiamarlo lavoro. All’inizio è stato difficile da far capire e accettare: tutti mi chiedevano, perché i ragazzi non hanno un ruolo e cambiano sempre? Perché il portiere la deve sempre giocare con i piedi? Si perdevano le partite senza che fosse un problema, contavano di più le regole, l’etica, il rispetto degli avversari. La parte pedagogica affiancava sempre quella tecnica, divertimento e passione venivano prima di tutto. In sette anni, questo modo di interpretare il calcio da difetto, se non addirittura colpa, è diventato un punto di forza. Abbiamo capito che si poteva giocare in modo diverso, vincevamo e perdevamo in modo diverso perché giocavamo in modo diverso”.

Nella Scuola calcio, dicevi. E nel Settore giovanile?
“Nel settore giovanile si fa più fatica a legare le persone a un progetto, soprattutto così diverso dagli altri. Conta vincere, conta partecipare ai campionati regionali, le persone vanno e vengono in base alla categoria in cui giochi. Complici i due anni di Covid, questo tipo di esperienza non ha dato, nel Settore giovanile, il senso di appagamento che aveva nella Scuola calcio”.

C’è un po’ di autocritica nelle tue parole?
“Non so, forse sì. Ma sono sicuro che, se fossi andato avanti, con i 2008 che hanno fatto tutto il percorso con noi sarebbe stato diverso. Potevamo avere nel Settore giovanile gli stessi risultati della Scuola calcio, con il passare degli anni sarebbero arrivati gruppi già formati, educati, non avremmo più dovuto prendere giocatori da fuori. Vedi, noi abbiamo vinto i campionati provinciali con 2002, 2003, 2005, ma queste vittorie portavano sempre le categorie regionali alle annate successive. E quando fai i regionali i giocatori vengono, quando non li fai vanno via”.

La domanda è d’obbligo: perché ti sei dimesso proprio ora?
“Ho lasciato perché avevo bisogno di staccare. E poi si era rotto qualcosa, se non ho autonomia completa, o meglio se non ce l’ho più, faccio fatica. I rapporti si sono incrinati, in una situazione che non era semplice per nessuno. A bocce ferme rimane quello che c’è stato, bellissimo, su cui sto riflettendo profondamente”.

Eri d’accordo con la scelta del PSG di rinunciare ai regionali?
“Non ho condiviso la scelta del nostro presidente, penso che abbia penalizzato ulteriormente il movimento che avevamo creato. I presupposti e le analisi sono sacrosanti, per esempio ripeto che la squadra che vince nei provinciali deve salire nei regionali, mentre il discorso delle categorie favorisce solo le grandi società. Non mi piace il sottobosco del calcio dilettantistico, che la Federazione non riesce a controllare e sanzionare. Ma non sono d’accordo con la conseguenza, ovvero rinunciare ai regionali. Facciamoci portatori di un cambiamento, va bene, ma le regole sono quelle e vanno rispettate. E nessuno, né io né noi del PSG, può fare il santo, anche se prova a comportarsi in modo diverso”.

Cosa intendi per sottobosco del calcio dilettantistico?
“Non mi piace il mercato dei giocatori, che vanno e vengono in base ai regionali, non mi piace chi intorta ragazzi e genitori con promesse mirabolanti, non mi piace chi pensa di avere il figlio fenomeno, quando i giocatori veri sono tutt’altra cosa, non mi piace dover vincere ad ogni costo. Vai in campi dove fanno durare quanto vogliono le partite della Scuola calcio e non fanno i cosiddetti “giochini” perché non gli piacciono. Vedi società che postano foto di giocatori con la maglia vecchia, vedi allenatori che a maggio o giugno sono già nella nuova società, vedi istruttori che bestemmiano e insultano bambini di 8 anni e nessuno dice niente, anzi magari gli fanno i complimenti perché forma il carattere. Non bastano gli incontri formativi, servirebbero maggior controllo e sanzioni vere. O tutti rispettano le regole, o è far west. Questa è la mia vera amarezza, constatare che dopo 7 anni non è cambiato niente”.

A Pino potevate essere un modello.
“Sei un modello se qualcuno ti segue… se non ti segue nessuno, che modello sei?”

Guardiamo al futuro allora. Cosa farai domani?
“Non lo so ancora. Ho avuto due o tre proposte, ma magari mi toglierò il giusto di andare un anno ad allenare gli adulti, per capire se è ancora possibile incidere e soprattutto per divertirmi”.

Un anno nei dilettanti e tornerai di corsa nelle giovanili, scommettiamo?
“È probabile, ma le eccezioni ci sono. A Pino la prima squadra era fantastica, giocavano ragazzi che allenavano anche in società, la stessa filosofia dai Pulcini alla Prima squadra. Ma non basta allenarli per farli diventare giocatori di serie D, così come non basta allenare i ragazzi per farli diventare professionisti”.

Cosa serve?
“Servono doti atletiche e fisiche, servono doti tecniche, ma soprattutto serve il carattere, questo è il più grande dono che una persona si possa regalare. Senza voglia non vai da nessuna parte”.

Ultima modifica il Mercoledì, 29 Settembre 2021 17:44

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