Venerdì, 25 Aprile 2025
Martedì, 22 Aprile 2025 19:24

“Il calcio è scuola di vita”. Intervista a Mister Caldarella, cuore e guida del Beppe Viola Under 15

Scritto da Denis Lauriola

IL PERSONAGGIO - Nel mondo del calcio giovanile, Luigi Caldarella non è un nome qualunque. È un allenatore che ha saputo trasformare una sfida personale in una missione educativa, guidando con passione e coerenza l’Under 15 del Beppe Viola.


Come sei passato da giocatore ad allenatore?
«Per necessità, non per scelta. Avevo 37 anni quando ho capito - con fatica - che non potevo più giocare. Dopo un’operazione, la gamba non ha mai più risposto come prima. E per un bel po’, cinque anni almeno, ho tenuto il calcio lontano: mi faceva troppo male anche solo starci vicino».

La sua storia da giocatore, come quella di tanti, è segnata dalla passione viscerale per il pallone. Aveva vestito maglie importanti nei dilettanti torinesi, con la grinta di chi non voleva mai mollare. Ma il destino, come spesso accade nello sport, ha messo un punto forzato.

E poi cos’è cambiato?
«È successo grazie al presidente del Beppe Viola Mimmo Arcella. C’era un legame forte tra noi e un giorno mi ha detto: “Perché non vieni ad allenare i bambini?”. Ci ho pensato, ho fatto un bel respiro... e ho detto sì. Non sapevo che quel sì mi avrebbe rimesso in piedi in tutti i sensi».

Da lì in poi, è stato un crescendo. Prima i più piccoli, fino alla guida dell’Under 15. Un percorso graduale, costruito mattone dopo mattone, spesso sacrificando serate, lavoro e tempo libero. Ma sempre con una convinzione incrollabile: restituire al calcio ciò che il calcio gli aveva dato.

All’inizio avevi delle paure?
«Sì, assolutamente. Paura di sbagliare, di non essere all’altezza. Ma ho avuto una fortuna enorme: i genitori dei ragazzi. Davvero, persone splendide, pazienti, comprensive. In un mondo dove spesso sento storie che fanno passare la voglia di allenare, io posso dire il contrario. Loro mi hanno fatto amare questo lavoro».

Ed è proprio qui che si nota la differenza. In un ambiente dove spesso genitori e allenatori si scontrano, al Beppe Viola il clima è diverso. Non per caso, ma per scelta: quella di costruire un patto educativo, prima ancora che sportivo. Un'alleanza tra campo e casa.

Che rapporto hai con i genitori?
«Chiaro, diretto. Io alleno, loro fanno i genitori. Ma fuori dal campo? Possiamo anche essere amici, andare a cena, scherzare. Non vedo il problema, finché c’è rispetto. E il rispetto - lo dico sempre - si guadagna, non si pretende».

Non mancano le difficoltà, ovvio. Ma la trasparenza vince su tutto. Ogni genitore sa che con Caldarella può parlare, confrontarsi, chiedere. Ma mai forzare. E questo fa la differenza: i figli lo capiscono, lo sentono, e lo rispettano di riflesso.

Hai un approccio molto umano…
«Cerco di esserlo. Credo nel dialogo, nel confronto. Non sono uno di quelli che finito l’allenamento sparisce dalla porta sul retro. Se un ragazzo vuole sapere perché non ha giocato, lo rendo partecipe. Se devo fermare un’azione per spiegare qualcosa, lo faccio. È il mio lavoro. E se uno non lo fa… cosa ci sta a fare lì?»

Ogni settimana è una lezione, dentro e fuori dal campo. Allenare, per Caldarella, non è dare ordini ma costruire fiducia. È prendersi il tempo per parlare con chi ha lo sguardo basso, per ascoltare chi ha bisogno. È, in poche parole, esserci davvero.

Come gestisci l’arrivo di nuovi ragazzi nella squadra?
«Con molta attenzione. Non mi interessa fare la “squadra dei più forti”. Mi interessa che crescano insieme. Se un nuovo arrivo rompe gli equilibri, io passo. Ho rinunciato a giocatori fortissimi pur di non rovinare l’anima del gruppo. Per me prima viene la coesione, poi il resto».

Nel 2024 la squadra ha affrontato una rotazione importante: sette ragazzi in uscita, sette in entrata. Eppure, il gruppo ha retto. Perché il “metodo Caldarella” è questo: prima le relazioni, poi le prestazioni. E i risultati, alla lunga, arrivano.

E quando qualcuno resta in panchina?
«Lo dico sempre: qui non si regala niente. Ma chi si impegna, chi non salta un allenamento, prima o poi l’occasione la trova. E quando arriva… devi farti trovare pronto. Ho ragazzi che non hanno giocato molto, ma si sono guadagnati il campo col sudore e col silenzio».

Sono storie come quelle di molti, che dopo mesi di panchina hanno trovato lo spazio che meritavano. O di un difensore per citare un caso che si è allenato senza mai lamentarsi e alla prima da titolare ha fatto una partita da manuale. Perché il calcio è meritocrazia, ma anche cuore.

Come imposti i tuoi allenamenti?
«Io dico sempre: “Giochiamo a pallone”, non “facciamo calcio”. Suona diverso, no? Cerco di adattarmi ai ragazzi, in base alla loro età, ai loro tempi. Non li faccio correre per correre, ma cerco di farli correre con un pallone tra i piedi. E occhio: la tattica va bene, ma non bisogna esagerare. Se vuoi costruire dal basso, devi avere ragazzi con personalità. Se non ce l’hanno, li metti solo in difficoltà».

La sua filosofia è un mix tra realismo e idealismo. Vuole il bel gioco, ma senza snaturare chi ha davanti. Non impone schemi, costruisce identità. E soprattutto, non dimentica mai che il calcio è anche (e soprattutto) divertimento.

Qual è stato il tuo obiettivo quest’anno?
«La salvezza. Ce l’abbiamo fatta. E con sette ragazzi nuovi. Il bello? Migliorato anche il piazzamento. Ma il risultato, alla fine, è solo una parte. Io voglio che questi ragazzi crescano, che diventino persone migliori, non solo atleti più forti».

Settimi in classifica, dopo l’ottavo posto dell’anno scorso. Ma con un gruppo rinnovato, più maturo, più coeso. Una piccola grande impresa, che ha il sapore del lavoro fatto bene, giorno dopo giorno.

Hai mai pensato di allenare in ambito professionistico?
«Certo che sì. Mi sarebbe piaciuto avere una chance. Ma se non hai tutte carte in regola, è dura. Ho sempre lavorato, spesso fino a tardi. E in certe realtà, se non ci sei alle tre del pomeriggio… non ti chiamano nemmeno. Però sai che ti dico? Non mi lamento. Ho trovato un calcio che mi assomiglia. E che mi ha insegnato tantissimo».

Hai avuto un mentore, qualcuno che ti ha ispirato nel tuo percorso da allenatore?
«Da giocatore mi dicevano spesso che ero un allenatore in campo. Avevo quella tendenza a leggere le situazioni, a parlare coi compagni, a guidare. Ma la svolta vera è arrivata quando ho incontrato un mio ex allenatore, Roberto Scacchetti. Ho fatto il suo vice per un anno. Un anno solo, ma mi ha lasciato dentro tantissimo. Non tanto per la parte tecnica, gli schemi, le lavagne, i moduli... Quello, paradossalmente, lo impari ovunque. No, con lui ho imparato quello che non si vede: la gestione dello spogliatoio, l’equilibrio tra autorevolezza e ascolto, il prendersi le responsabilità nei momenti difficili senza mai scaricarle sugli altri. Mi diceva: “Tu ce l’hai già dentro, non è scritto su nessun libro come si allena un gruppo, perché quello che funziona con uno non funziona con un altro. Devi saperli leggere, uno per uno”. In quell’anno ho capito che allenare non significa solo preparare una partita. Significa costruire relazioni, sostenere chi vacilla, trovare la chiave giusta per ogni ragazzo. E tutto questo, oggi, cerco di trasmetterlo ogni volta che entro in campo».

Qual è il tuo sogno più grande, oggi?
«Un calcio più pulito. Più umano. Un calcio dove non ci si urla addosso dalle tribune, dove le persone non usano lo sport per sfogare le frustrazioni. Un calcio che sia davvero una scuola di vita. Perché alla fine è questo il punto: noi dobbiamo aiutare questi ragazzi a diventare uomini, prima ancora che giocatori».

Mister Caldarella non ha bisogno di microfoni o luci per brillare. Gli basta un campo, un pallone e un gruppo di ragazzi da accompagnare nel viaggio più importante: quello della crescita. Perché il calcio, quando è fatto bene, diventa davvero un posto in cui si impara a vivere.

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