Venerdì, 26 Aprile 2024

A tu per tu con Mario Goffo: "Tecnica, estro e fantasia, ecco come dovrebbe essere il calcio"

INTERVISTA - Il tecnico esprime i suoi dubbi sul calcio di oggi e, ricordando il grande Rabitti, parla della fantasia e dei sogni che vorrebbe vedere nei piccoli calciatori.


Una volta ha detto che per mettere su carta la sua incredibile esperienza servirebbe un libro intero, un libro che di certo in tanti leggerebbero volentieri e almeno altrettanti dovrebbero essere costretti a leggere. Lui è Mario Goffo, ex osservatore e allenatore delle giovanili di società come Juventus, Torino, Victoria Ivest, Rapid Torino, Beinasco e Gabetto. L'abbiamo intervistato per scrivere la prima delle pagine di quella biografia che potrebbe, e dovrebbe, ispirare tanti.

“Tecnica, estro e fantasia, ecco cosa dovrebbe essere il calcio” con queste parole un allenatore, che sul campo ha passato i tre quarti dei suoi anni e che del pallone ha fatto la sua filosofia di vita, riassume il suo pensiero e si racconta.

Mister, per me è un onore poterla intervistare e vorrei chiederle di raccontare la sua storia a tutti quelli che ancora non la conoscono. Come ha iniziato? Come è arrivato agli apici del calcio piemontese?

“Ho iniziato la mia carriera da allenatore al Torino, dove ho passato cinque anni, poi, per altri quattro, sono stato alla Juventus, ma solo per poi ritornare nel Toro di Gabetto, dove poi sono stato fino a fine carriera. Quando ho lasciato il posto in panchina, ho iniziato a fare da osservatore per i granata un po’ in tutta Italia, fino a quando al Torino è arrivato, prima nella posizione di responsabile della Scuola calcio e ora di direttore, Massimo Bava. Nel mio periodo da osservatore ho fatto, credo, un lavoro eccellente: cercavo giovani da poter inserire nella squadra già a 11-12 anni, prima che avessero il vincolo. Ho girato Sicilia, Campania e un po’ ovunque in Italia prendendo ragazzi promettenti, tra cui anche alcuni grandi nomi come Quagliarella".

Ha girato moltissime società e visto centinaia di ragazzi, dove sente di aver lasciato l’impronta più indelebile? Dove crede di aver fatto davvero la differenza?

“Credo di averla lasciata allenando: ho creato una squadra, quella degli ’84, che non aveva rivali da nessuna parte, né in Italia né in Europa. Abbiamo giocato con Ajax, Real Madrid, Barcellona e ne siamo sempre usciti vincitori. Era una squadra fortissima: c’erano Marchese, che ha giocato in serie A fino a poco tempo fa, Mantovani, anche lui arrivato nella massima serie, e Alessandro Campo, il miglior giocatore che abbia mai visto giocare in una giovanile. Campo era un giocatore incredibile, con delle doti eccezionali. La peculiarità che lo rendeva incredibile era la rovesciata, non ho visto nessun altro farne così tante e così bene. Quando arrivavamo in campi, anche fuori dall’Italia, tutti lo conoscevano e gli chiedevano persino la foto… Purtroppo quando è finito a fare l'esterno sinistro non ha più saputo esprimersi allo stesso modo, ed è finito prima al Cittadella, in serie B, e poi in Sudtirol".

Lei ha sempre spinto per una maggiore attenzione verso i Settori giovanili: ha parlato dell’aspetto educativo, del valore dei fondamentali e del dialogo con i ragazzi. Che cosa la soddisfa del calcio di oggi e che cosa invece crede che sia ancora da migliorare?

“Nonostante abbia a lungo discusso, non sono mai riuscito ad ottenere la maggiore attenzione che desideravo per il calcio dilettantistico: su questo piccolo mondo si basa tutto quello del calcio dei grandi. Le giovanili dovrebbero essere allenate dai tecnici migliori e ricevere le maggiori preoccupazioni. Odio che non si cerchi più di valorizzare i giovani e non mi capacito di come sia possibile che in Italia, da sempre famosa per i suoi incredibili estremi difensori, ci siano squadre che non riescono nemmeno a trovare un portiere anche solo per giocare. Sull’altra faccia della medaglia invece credo che questo mondo si stia evolvendo dal punto di vista educativo: alcuni allenatori riescono a farsi rispettare creando, al contempo, dialogo e un rapporto personale con i ragazzi. I calciatori arrivano ad adorare i loro istruttori e così i giocatori diventano delle spugne: imparano e migliorano a tassi stupefacenti. Io credo di essere testimone di questo: avendo tenuto per sette anni la stessa squadra, quella dell’84, ho creato un rapporto incredibile con i ragazzi e sono riuscito ad ottenere risultati incredibili. Di contro in alcune società altri allenatori sbagliano tutto: guardano gli allenamenti di grandi squadre a livelli altissimi, basati sulla forza più che sulla tecnica, e pretendono di applicare gli stessi metodi ai ragazzi di 12/13 anni.”

Nella sua lunghissima carriera ha avuto la fortuna di conoscere Rabitti, uno dei guru del calcio piemontese, come ha influito questo sulla sua idea di calcio? Che cosa le ha trasmesso?

“Rabitti era un personaggio incredibile, con delle peculiarità solo sue, e mi ha insegnato tantissimo. Prima che morisse, quando aveva già smesso di allenare, io gli telefonavo ancora perché mi spiegasse qualche concetto o per qualche consiglio e lui mi dava appuntamento sotto casa sua. Ci incontravamo in macchina e lui srotolava tutti i suoi papiri e le sue carte e per ore stavamo lì a parlare. Rabitti nella mia visione non è solo stato un grande maestro a livello Italiano, ma è stato il mio personale grande insegnate. Oggi purtroppo i nuovi istruttori sono molto più reticenti nell’ascoltare e accettare i consigli.”

Lei è stato testimone, in prima persona, di diverse evoluzioni del calcio: dove sta andando secondo lei il sistema dilettantistico? Cosa vede nel futuro del calcio giovanile?

“Vedo una falla: una falla che ha iniziato a far marcire da dentro il sistema del calcio giovanile e di cui dovremmo preoccuparci. Parlo del fenomeno dei procuratori, ormai ad assistere alle partite di ragazzi di 12 anni ci sono anche loro: faccendieri che cercano di accaparrarsi i giocatori parlando con i familiari e facendo regali. Stanno arrecando un danno enorme. L’altro problema è quello di star sottovalutando sempre di più la tecnica, l’estro e la fantasia in favore della forza. Mi sembra che il mondo del calcio, già a livello giovanile, stia scadendo nel cercare di produrre delle macchine o dei giocatori di rugby.”

Che cosa raccomanda alle nuove generazioni di istruttori e allenatori?

“Un bravo istruttore deve essere innanzitutto un educatore. Questo è sempre stato un mio punto fisso. Educare significa insegnare il rispetto, il valore della coesione o anche semplicemente a dare la mano all’avversario. Ho a lungo discusso per far sì che i giocatori si schierassero per darsi la mano alla fine della partita, dopo essersi affrontati. Poi io raccomando agli allenatori di cercare, prima di ogni cosa, di trasmettere e lasciar sprigionare la fantasia e l’estro che ogni calciatore ha dentro di sé. Questo significa anche creare per i ragazzi allenamenti sempre diversi, sempre nuovi: ogni volta ci deve essere una nuova sfida, una variante, perché i giocatori devono entusiasmarsi e divertirsi. L’allenamento deve essere un divertimento, è l’unico modo per ottenere dei veri risultati.”

Se dovesse dare un consiglio, uno solo, ad un giovane calciatore, quale sarebbe?

"Ogni piccolo calciatore sa che nel suo cassetto, nel comodino, magari in fondo o in un angolo, c’è il suo sogno: il suo sogno di diventare un grande calciatore. Se così è, allora deve fare di tutto per riuscirci, deve alimentare il suo sogno e renderlo sempre più vivido, deve andare oltre le sfide e superare gli ostacoli in nome di quel sogno!"

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