Lunedì, 29 Luglio 2024
Venerdì, 15 Ottobre 2021 14:19

Verso Qatar 2022 - L'industria dei giovani calciatori qatarioti, il "Football Dreams" che si trasforma in incubo

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1ª PUNTATA / L'ERBA DEL VICINO - Ricominciano gli editoriali di giocaacalcio.it con una nuova rubrica a cura del giornalista-giramondo Mattia Pintus, che racconta l'Aspire Academy, una vera e propria macchina costruita dal governo per sviluppare il calcio in Qatar, il paese che il prossimo dicembre ospiterà la prima edizione invernale dei mondiali di calcio


Akram Afif tira un rigore perfetto. Dopo aver segnato, calcia il pallone di ritorno dalla rete direttamente in curva, con una carica esplosiva da homerun nel baseball. Si toglie la maglia, va in corner attorniato dai compagni per esibirsi in una pugilistica esultanza. Scorre il minuto 83 sul cronometro della finale di Coppa d’Asia, ma il risultato è ormai scritto: Qatar tre, Giappone uno. Akram esulta ancora, “finalmente” avrà pensato. Dopo sette assist e nemmeno un sigillo, può valere di consolazione una rete decisiva in finale. La sua esultanza però, parte da più lontano di quell’1° febbraio del 2019. Bisogna tornare a dieci anni prima, quando nel 2009, dalle giovanili dell’Al-Sadd, passa come studente a tempo pieno presso l’Aspire Academy. Classe ’96, Akram ha solo tredici anni quando entra nel circuito del reclutamento qatariota: una vera e propria macchina costruita dal governo per sviluppare il calcio in Qatar, il paese che il prossimo dicembre ospiterà la prima edizione invernale dei mondiali di calcio.

L’Aspire Academy nasce, per decreto dell’Emiro, nel 2004. Ben prima dell’assegnazione ufficiale dei mondiali del 2022, ma certo con le sottintese intenzioni di un progetto a lungo termine, rivolto a tutti gli sport. Una scelta governativa quindi, che ha visto massimizzare le forze al fine di ottenere dei risultati. E parte dei successi che l’Aspire Academy ha conquistato - e che culminano in ambito calcistico con la Coppa d’Asia del 2019 – sono figli, come detto, di un sogno. Football Dreams, esattamente, è questo il nome dell’azione umanitaria legata al calcio che l’Aspire Academy ha creato nel 2007. Una selezione incredibile di ragazzi, generalmente tredicenni, che passano al vaglia degli scout qatarioti: un’iniziativa che, tra il 2007 e il 2014, ha coinvolto 3,5 milioni di potenziali talenti provenienti da tutta l’Africa e da parte di Asia e America Latina. Sotto gli occhi attenti degli osservatori, tra cui Josep Colomer, colui che al Barcellona si accorse per primo di Lionel Messi e che si è fatto promotore del progetto, sono tantissimi i ragazzi che entrano nell’imbuto: dal Senegal al Ghana, dal Camerun al Sudan, Football Dreams non fa sconti. Ma di tantissimi che si presentano, solo venti saranno i fortunati che sbarcheranno a Doha, con una borsa di studio per l’Aspire Academy.

Insomma, quello che nasce come un ambizioso progetto umanitario, subito rivela le contraddizioni di una corsa a premi. Quasi di un reality, se si pensa al colpo d’occhio dell’Aspire Zone, il centro sportivo dell’accademia a Doha. Due stadi, centodiecimila posti complessivi, piscina olimpionica, ospedale, torri, grattacieli e quant’altro annesso. Si vede il peso specifico di un investimento che è stato soprattutto economico. Eppure, lo slancio di frenesia derivato dai mondiali in patria, ha avuto bisogno di una macchina industriale alle spalle per consolidarsi: e l’obiettivo dell’Aspire non è mai stato soltanto quello di offrire alla nazionale un ventaglio di promesse tecnicamente valide, ma specialmente di trarre un profitto dal lavoro di tracciamento di tutti i ragazzi visionati. Attualmente, infatti, l’Aspire possiede tre club in Europa (l’Eupen in Belgio, il Cultural Leonesa in Spagna e il LASK Linz in Austria) e ha avviato una partnership con il Leeds, in Inghilterra. L’ambizione è quella di diventare il miglior vivaio al mondo e, perché no, di guadagnarci: magari, facendo leva sul contributo di solidarietà imposto dalla Fifa che va alla squadra formatrice, per cui rientra del 5% di ogni singolo trasferimento di un calciatore in proporzione al tempo di militanza nel club tra i 15 ed i 23 anni.

Il calcio in Qatar, quindi, sembra essersi industrializzato. E segue, tra l’altro, le logiche di un’industrializzazione aggressiva, che ha varcato ben presto i confini nazionali, pur di espandersi. Non stupisce che la vita di un tredicenne che entra nel mondo Aspire sia sottoposta al duro stress del lavoro quotidiano: sveglia alle 6.30, colazione alle 7, lezione di arabo alle 7.30, palestra alle 10.15, pranzo alle 12.15. Seguono relax in biblioteca, altre ore di studio, altri allenamenti, altro svago. Un ritmo quasi monastico per ottenere uno scopo ben preciso: emergere (ed essere profittevole).

Il caso del Qatar richiama in parte ad un altro fenomeno di “sfruttamento sportivo” di minorenni. Chiunque abbia letto l’autobiografia di Andre Agassi, Open, ricorderà i ritmi sfrenati che il campione americano ha vissuto negli anni dell’adolescenza, passati all’accademia di Nick Bollettieri in Florida. E dai racconti di Agassi, si percepisce che il suo non fosse un semplice caso isolato, ma una goccia all’interno di un sistema di iper-competitività qual era il circuito tennistico giovanile negli USA degli anni Ottanta. Ed il progetto Aspire, corredato da quello di Football Dreams, ha tutti i tratti tipici di una sceneggiatura distopica, fatta di alienazione e promesse, di quelle che – però - hanno un lieto fine sempre incerto. Quello che è sicuro, è che negli ultimi dieci anni il calcio non può fare a meno di non guardare al Qatar come ad un attore principale, un attore politico, ma come visto anche sportivo; si tratta di un risultato se non altro sbalorditivo, anche al netto di metodi, come detto, a tratti quasi da serie televisiva.

 

Ultima modifica il Mercoledì, 03 Novembre 2021 13:04

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