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Venerdì, 16 Settembre 2016 19:54

Ci ha lasciati il “maestro” Matteo Dalla Riva

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LUTTO - Giocatore, allenatore, direttore tecnico e talent scout, ha fatto la storia del Vanchiglia e del Torino. I funerali lunedì alle 11.00 nella chiesa di San Giulio d’Orta

Una grave perdita sconvolge il calcio piemontese. È mancato Matteo Dalla Riva, classe ’32, maestro indiscusso del calcio torinese. È stato giocatore, allenatore, direttore tecnico e talent scout dal fiuto infallibile, non per caso lo chiamavano l’inarrivabile, o con il diminutivo “Il Dalla”. Ha fatto la storia del Vanchiglia e del Torino - dove ha vinto lo Scudetto da allenatore dei Giovanissimi nazionali -, è stato anche al Settimo, all’Ivest e in altre società, ma per brevi periodi.
Vero conoscitore del calcio, per tutti i suoi “allievi” è stato maestro di vita prima che di calcio; grande scopritore di talenti, ha scovato nei campi di periferia Scornacchia, Onofri, Sollier e tanti altri, un’intera generazioni di calciatori. Emblematica la storia di Roberto Cravero, arrivato al Toro da attaccante, trasformato in libero da Matteo Dalla Riva: ancora una volta, ci aveva visto giusto.
Il funerale di Matteo Dalla Riva si terrà lunedì alle 11.00 nella chiesa di San Giulio d’Orta, di fronte alla sede storica del Vanchiglia, in corso Cadora 17/3 a Torino.
Di seguito - riprendendo quanto pubblicato sul sito ufficiale del “suo” Vanchiglia - riportiamo uno stralcio della prefazione che Paolo Sollier ha scritto per il libro “Cento anni di calcio e passione” di Paolo Montone.

“Parafrasando il mitico romanzo di Gabriel Garcia Marquez, quelli dell’Unione Sportiva Vanchiglia si potrebbero definire cent’anni di gratitudine. Reciproca. Tra dirigenti, giocatori, genitori e semplici, dunque preziosi, appassionati.
In un tempo così lungo, c’è sempre il rischio di confondersi e dimenticare qualche passaggio, o magari mitizzarne altri a sproposito: questo libro serve proprio a ricordare, possibilmente senza retorica, rinnovando continuamente quel percorso comune, fieramente identitario ma, contemporaneamente, aperto e inclusivo. Le società sportive hanno spesso assunto il ruolo di supplenti virtuose per rimediare alle mancanze dei sistemi scolastico e sociale, e, a volte, delle stesse famiglie, non solo favorendo l’approccio all’attività fisica, fonte primaria di salute, ma garantendo anche un sostegno fondamentale alla maturazione dei ragazzi, sia individuale che collettiva.
Il Vanchiglia, al riguardo, è stato sin dall’inizio un riferimento imprescindibile, tanto nel quartiere quanto nell’intera Torino, portando questo insieme di persone ed esperienze a un inesauribile senso di appartenenza, capace di spingere le successive generazioni alla costruzione di un patrimonio condiviso, arricchito dalle molte diversità. Le vicende personali non sono dunque una faccenda individuale, ma frammenti di una storia complessiva, fantasioso e ispirato labirinto, tra successi e delusioni, abbracci e litigi, progetti e difficoltà, tutto ciò, insomma, che sprona le sfide e le rende degne di essere vissute.
Ecco perché raccontare come ho conosciuto il mio primo allenatore mi sembra, oggi, una piccola e divertente favola, utile a ricordare un’epoca lontana, ma pienamente inserita in una continuità che inorgoglisce.
Ci vuole uno sforzo di memoria di chi già c’era, o di ardita immaginazione dei più giovani, per tornare all’inizio degli anni sessanta e riconoscere come e dove eravamo, fisicamente e mentalmente. Bisogna, necessariamente, partire dai prati. Per quanto possa apparire impossibile, tutta la porzione di territorio compresa tra corso Belgio, corso Cadore, lungo Dora Voghera e lungo Po Antonelli era una spianata di verde, qualche metro sotto il livello stradale. Non c’era, ovviamente, la chiesa di San Giulio, in compenso, poco più in là, sopravviveva la storica cascina, a guardare dal basso il complesso di edifici, definiti Case nuove, che ospitavano anche la sede del Vanchiglia. Dietro la cascina, c’era il campetto, rubato alle esigenze agricole, anche per intercessione di Renato, figlio del contadino, che giocava con noi. Terreno irregolare e porte tirate su con l’ingegno infantile, non proprio un modello estetico, ma robusti pali e traverse a catturare l’immaginario. Imparavamo anche i primi trucchi e certe svelte furbizie. Ad esempio, quando dovevamo gonfiare il pallone (i vecchi palloni con camera d’aria e micidiale cucitura) avevamo trovato un metodo rapido e canagliesco: sotto la tettoia della cascina c’era sempre qualche camion parcheggiato, bastava infilare la presa della camera d’aria sulla valvola di una ruota, facendone scattare con perizia l’otturatore, e la pressione rubata ci garantiva un gonfiaggio perfetto, seppure tra le imprecazioni degli autisti, quando trovavano la gomma molle.
Un giorno, la sfida pomeridiana faceva registrare l’assenza di un portiere e, tirando a sorte, il ruolo derelitto toccò a me. Al termine della partita, un signore, dall’alto della scarpata, mi chiamò, invitandomi a raggiungerlo: era Matteo Dalla Riva e mi chiese di andare al Vanchiglia. Risposi, quasi spaventato, che però io non giocavo in porta. Il dialogo, tutto in piemontese (ma mi giögu nen ’n porta!) fu davvero surreale, ma finì con una gustosa risata e un appuntamento al campo. Negli anni successivi, più volte scherzammo sul suo diabolico fiuto che in un portiere impresentabile aveva riconosciuto un discreto centrocampista.
A quel punto, altro momento cruciale: comprare le prime scarpe da calcio, quelle vere. La missione (perché di questo allora si trattava) fu portata a termine in un negozio vicino a Porta Palazzo, quando, accompagnato da mio padre, provai un paio di calzature misteriose, con tacchetti inchiodati e la punta rigida, modello unico. Mi sembrò di avere le ali ai piedi, e non solo.
L’insegnamento di Dalla Riva fu davvero importante perché esercitava una severità affettuosa, che motivava e al tempo stesso sapeva rassicurare. I principi erano quelli cui dovrebbe ispirarsi ogni addetto ai settori giovanili: lealtà e rispetto per compagni e avversari, niente presunzione, miglioramento dei propri limiti, vietato cercare scuse, propensione al sacrificio e aiuto reciproco. E, soprattutto, ricordarsi sempre che si trattava di un gioco, non di una guerra. Infine, poi, saper vincere e saper perdere, cercandone sempre la giusta dimensione, senza esaltarsi o deprimersi. Valori sbandierati da tutti, ma non sempre praticati e spesso sacrificati a una competitività ossessiva e dunque, inevitabilmente, oppressiva”.

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