Torino, 15/11/2016
Allora cosa avete fatto oggi? <<Hanno giocato così così, ma abbiamo vinto!>> E voi invece? <<Mah. Abbiamo giocato bene. Ma hanno perso.>> Queste supergiù sono le solite risposte, alle solite domande, di come è andata la partita da parte dei genitori. Se hanno vinto, prima persona plurale, se hanno perso terza persona plurale. Non esiste il singolare forse perché, il gioco del calcio, del soccer, del football, della pelotas, è giocato da una squadra composta da 11 giocatori. Il massimo della risposta, forse, consiste nel pareggio. Ma a volte anche in quello, si riesce a inserire qualche verbo. Strano sport quello del calcio, e non per chi lo pratica, ma per i tifosi genitori che riescono puntualmente, sempre, a farsi notare per la particolarità del loro tifo e quindi anche del modo di esprimersi. Ci sono anch’io se abbiamo vinto, non c’ero se hanno perso. E’ un modo strano di partecipare al divertimento, all’educazione allo sport e anche alla crescita tecnica del proprio ragazzo; non oso poi immaginare cosa accada tra le quattro mura di casa, una volta terminata la partita a secondo se si è vinto o perso. Infinite discussioni sulla prestazione del proprio figlio, consigli tecnici, dettati dalla esperienza del papà fatta sui campi di terra quando era giovane. E così via. Tutte naturalmente poi disattese la domenica successiva da parte del proprio figlio, che bene fa ad ascoltare invece i dettati del proprio Mister.
Sabato, tardo pomeriggio, vado a vedere una partita della categoria Esordienti a 11 giocatori: “calcio vero”, come molti dicono e non ho ancora capito perché. Forse perché giocano a 11 come i grandi. Ma sempre ragazzini sono. Come sempre arrivo prima per sentire, vedere e saggiare l’atmosfera che aleggia nel campo. Sfida importante tra le due squadre che sono: gli ospiti i primi in classifica, i padroni di casa i secondi. Chi vince prende il volo nel proprio campionato. Arrivano le squadre con i tecnici, dirigenti e genitori, ragazzi che hanno le cuffie all’orecchio che si atteggiano a grandi giocatori, magari i loro idoli, che vedono in tv e che sognano un giorno di diventare come loro. Padri protettivi e genitori che si abbandonano al caffè o alle discussioni prepartita e previsioni sul risultato.
Nel frattempo sul terreno di gioco, sta terminando una “partitella” di un concentramento, tra due squadre di piccoli bambini nati nel 2009. Ma ve li immaginate? Bambini che sono ancora in lista di attesa per uscire dal “Sant’Anna” di Torino. Una volta scherzando ho detto a un mio amico: << vedrai tra qualche tempo le scuole calcio metteranno degli uffici nei reparti di natalità, dei vari ospedali, in modo tale che li tessereranno appena nati e già pronti per essere futuri campioni. Solo i maschietti naturalmente. Alle femminucce questa fortuna gli è negata.
Li vedo giocare e affannarsi in quello spazio ristretto e delimitato dai “cinesini” mentre inizia la partita. Alti neanche un metro che si affannano a tirare in porta per fare “gol”, e genitori che dagli spalti urlano, incitano e vedono già nel proprio figlio la stoffa del campione. Deve essere uno di questi quel papà, che non smette di urlare a ogni palla che il proprio bambino, vestito con una maglia che gli copre gambe, ginocchia e piedini, tocca anche se la manda fuori goffamente o non riesce a tirare in porta: urla talmente forte da far allontanare gli altri genitori, molto più pacati, che voglio vedere il proprio bambino cimentarsi per la prima volta in una sfida. Niente. Le urla continuano e il bambino sul campo continua a guardare il papà e cercare di accontentarlo facendo quello che lui gli dice di fare. In un continuo rimpallo con due bambini avversari, riesce a prendere la palla, non sa neanche lui come ha fatto, e corre verso la porta. Il papà impazzisce, le sue urla si alzano: <<dai, dai, tira, tira,>>. Niente il tiro finisce sull’esterno della rete e il bambino ritorna correndo verso il proprio centrocampo.
Passano pochi minuti che la scena si ripete, ma stavolta il suo tiro, complice il portierino avversario che non riesce a bloccarla, finisce in rete e dà inizio a una “samba” urlatrice del proprio papà, che a stento riesce a non scavalcare la rete per finire in campo, in un tirribillio di urla e sbracciamenti che fanno letteralmente allontanare tutti gli altri genitori. Le sue urla si sentono anche a una distanza considerevole, tant’è che la gente curiosa viene a vedere chi è questo papà che urla così forte. Lui, il bambino con la maglia che gli striscia sul terreno di gioco, va ad abbracciare i suoi compagni e gioisce per il gol fatto. Non sa poverino quello che suo padre sta combinando: roba da Talent Show!
Finisce la partitella e ha vinto (è giusto il verbo?) la squadra con il bambino che ha il papà urlatore, che poco manca che inizi uno spogliarello per la contentezza del gol fatto dal suo piccolo. I genitori della squadra che ha perso, cercano di mitigare la delusione parlando del tempo e del clima; ottimo diversivo per cercare di non pensare a una delusione. Mentre i genitori della squadra vincente, iniziano le lodi della partita e sprizzano gioia da tutti i pori, tant’è che sicuramente al ritorno a casa diranno: “abbiamo vinto”. Tutti i bambini vanno a prendersi gli applausi, vincenti e perdenti, e tutti i bambini sono contenti perché hanno giocato passando un bel sabato pomeriggio divertendosi e poco importa se loro hanno perso o gli altri hanno vinto. Lasciano ai loro papà, ai loro genitori, ai loro tifosi, la possibilità di mettere verbi accanto alla vittoria o alla sconfitta. Loro, i bambini, vanno ancora all’asilo e non hanno ancora studiato i verbi o la grammatica, i loro papà si che hanno studiato, ma probabilmente non ricordano più.
Mentre aspetto che inizi la partita per cui ero andato, aspetto fuori l’uscita di questi piccoli bambini che neanche una foto ben fatta, descriverebbe la loro felicità e la loro gioia. In particolare aspetto il bambino con il papà urlatore; a male pena lo vedo che esce, nascosto com’è da un borsone più grande di lui e da una folta e bella chioma di capelli. Il papà corre verso di lui, lo prende e lo alza per aria urlando sempre <<grande, grande>>, e tutti rimangono sorpresi dalla sua reazione. Lui, il bambino, vorrebbe scendere da quelle braccia che lo fanno un po vergognare perché vorrebbe stare ancora con i suoi compagni, ma niente, il papà non lo molla è suo ostaggio. Poi riesce a divincolarsi e con un volto quasi da vergogna gli sento dire: << papà andiamo dalla nonna che mi aspetta così gli dico che abbiamo vinto>>. Per ora i bambini, vogliono divertirsi soltanto e non pensare ai verbi, ci sarà tempo e modo per studiarli, sia in un campo di calcio che nella vita.
Per la cronaca, la partita di campionato degli esordienti, quella come dicono di “calcio vero”, è stata vinta dagli ospiti onestamente più forti dei padroni di casa. E’ stata una bella partita con tanti gol e tante emozioni, e così la squadra ospite prende il volo in campionato. A fine gara, mentre aspetto i “Mister”, per le rituali interviste, vedo arrivare trafelati alcuni genitori ritardatari delle due squadre. Allora come è finità? “Abbiamo vinto!” E’ un altro invece sentendo la risposta del genitore avversario chiede timidamente a un altro papà dalla faccia sconsolata ma serena: Come è andata? La risposta che questo papà da mi fa fare un sobbalzo: <<abbiamo perso.>>. Ha usato la prima persona plurale si vede che lui i verbi, quelli della vita e dello sport li ricorda ancora bene. Prende il suo ragazzo che esce dagli spogliatoi, anche lui con il volto sereno, e abbracciandolo sulle spalle si avviano insieme verso l’uscita, mentre gli altri genitori con il capo mesto, si avviano anche loro verso l’uscita tenendosi a distanza dal proprio ragazzo che “ha perso” e quindi non può godere dell’amore e dell’affetto del proprio papà quel pomeriggio.
Dovranno aspettare una vittoria per essere abbracciati anche loro. Li vedo, il papà e il suo ragazzo, complici di un “verbo”, quello plurale della vita e dall’amore che li accomuna nella consapevolezza di aver passato insieme un bel pomeriggio: il ragazzo giocando e il papà guardandolo giocare. Li guardo, ogni tanto si girano e vedo i volti sorridenti di loro due, mi domando cosa si stiano dicendo. Forse stanno ripassando il verbo “avere”!