Venerdì, 08 Novembre 2024

Torino, 10/01/2017

 

Si sa, per vedere la partita che, dura poi pochi minuti, del proprio bambino o del proprio ragazzo che si cimenta con prodezze o meno con la sua squadra, i genitori non badano a spese. Ma, questo è un dato di fatto, in tempi di ristrettezze economiche, il costo di 5 euro dell’ingresso per vedere la partita incomincia a pesare nelle tasche e nelle economie delle famiglie. In quel turbinio di Tornei, a volte troppi, giocando due partite al giorno, il campionato, i triangolari e tutte le manifestazioni che ogni società organizza o partecipa. Le amichevoli sono esenti dai pagamenti. Ma non si possono sempre fare amichevoli durante la sosta dei campionati. E’ allora via ai mega tornei di tre o quattro partite a settimana. Ho sentito in questi ultimi tempi le lamentele di molti papà e mamme, addirittura che ci sono stati genitori che, hanno speso fino a 30 o 40 euro per weekend, in quanto il proprio figlio è arrivato a giocare due o tre partite tra il sabato o la domenica, o perché magari si ci è portati dietro nonni e parenti per far apprezzare il gol per quei pochi minuti che il proprio bimbo giocherà.

 

 

Tasto dolente questo, sia perché riguarda le scuole calcio che anche con questi “oboli”, riescono a sopravvivere e a sopperire in parte i sempre più elevati costi per la gestione, sia per le famiglie che a volte arrivano a spendere a fine mese, cifre da fine settimana al mare in albergo tutto compreso con l’intera famiglia. Per carità, non voglio sollevare questioni che magari porterebbero a discussioni infinite e senza fine, ma andando anch’io nei campi, vedo sempre meno gente che entra e molti papà o mamme che aspettano fuori, colpa anche dell’inflessibilità dei “botteghini” all’ingresso di ogni società: se non paghi non vedi tuo figlio giocare! Una equazione che non fa una grinza, e siccome si fa sempre perno sulla tifoseria accesa dei genitori, magari di quelli che hanno il campione in casa, spesso molti chiudono occhi e aprono le tasche, pagano ed entrano, per vedere magari solo 10 minuti di partita del proprio ragazzo. Senza contare, nelle spese di ingresso, i caffè, le patatine, il gelato, l’immancabile panino con la salsiccia, onnipresente in tutti i campi, e le altre spesucce accessorie, quali benzina, tangenziale, autostrada ecc. Sta di fatto che io continuo a vedere sempre meno gente sugli spalti e molti che rimangono a casa, aspettando il risultato via whatsapp, dal papà che, forse più dotato economicamente, ha portato il proprio bambino a giocare.

 

Lui, il papà rimasto a casa con il cuore dolente per non essere riuscito a vedere la partita, rimane trepido in attesa del risultato ma, soprattutto, di come ha giocato il proprio figlio. Non si tratta di rinunce, dolorose, per capriccio o per inerzia a muoversi dal divano, si tratta nella stragrande maggioranza, di genitori che hanno perso il lavoro, che non riescono più a far quadrare i conti con le spese per il cibo, vestiario, costi della casa, figuriamoci i 10 o 20 euro per un sabato o una domenica. Si tratta di cose vere, tangibili, concrete, di difficoltà che spesso molti papà non vogliono dire per dignità, e per far giocare il proprio figlio rinunciano a vederlo, questo è anche amore, che purtroppo molti non riescono a capire, soprattutto chi se ne infischia altamente se i propri genitori non riescono ad arrivare a fine mese: figuriamoci a pagare i biglietti per tre o quattro partite.

 

Senza contare la retta della scuola calcio che in certi casi ha raggiunto cifre da mutuo per acquisto casa. Problema molto sentito e serio che bisognerebbe affrontare al più presto, tra le società delle scuole calcio, la federazione, Coni e con tutti gli enti interessati. Pena la totale desertificazione degli spalti e partite giocate quasi a “porte chiuse”. Qualcuno ha trovato la soluzione diventando “dirigente” della squadra dove gioca il proprio ragazzo, messo nella famosa “distinta” e quindi non paga all’imgresso, ma questo comporta ulteriori sacrifici: tempo rubato alla famiglia per tutte le incombenze che il ruolo prevede. E’ siccome il nostro paese, da decenni oramai si trova, anche lui in ristrettezze economiche, appare di difficile soluzione la riduzione dei costi del biglietto, piuttosto di trovare una diversa soluzione: per esempio visto che si tratta di scuola calcio educativa, si potrebbe immaginare non un costo fisso, ma una donazione fondando sempre sul buon cuore dei genitori. Ma si sa, siamo in Italia e certe cose è meglio non affrontarle in quanto, poi gli Italiani si comportano sempre in maniera di fregare il prossimo: <<Ma la squadra di mio figlio perde sempre. Figurati se io spendo 5 o 10 euro per vedere mio figlio perdere>>. A volte sono questi i penosi commenti dei molti papà. “Io non vado al campo per vedere mio figlio perdere, io vado a vedere mio figlio giocare e divertirsi, e io divertirmi con lui”. Questa dovrebbe essere la massima di ogni genitore.

 

Non si possono pagare cifre da ristorante, per vedere il proprio ragazzo divertirsi correndo dietro a un pallone. Non me ne vogliano i genitori che invece hanno i campioni in casa e sarebbero disposti a spese “pazze” per lui. Nessuno, dico nessuno, e mi dispiace per loro, arriverà mai a giocare al “Santiago Bernabeu” o piuttosto al “Camp Nou”, non perché non siano bravi, ma perché è statisticamente provato che la passione del papà verso il proprio ragazzo che gioca al calcio, si scontra sempre con la realtà di tutti i giorni. Ho letto che, agli inizi di questo nuovo anno, un genitore di Livorno, ha scritto al giornale “Il Tirreno”, una lettera denuncia appunto sui costi sempre più elevati per vedere il proprio bambino giocare al pallone. Ha sollevato subito un problema che è stato ripreso da molti, con l’impregno di intervenire in qualche modo. Il Sindaco, l’assessore allo sport, si sono fatti carico di portare al Coni il problema, diffuso in tutta Italia, di cercare soluzione immediata, magari intervenendo su eventuali finanziamenti o diverse modalità, verso le scuole calcio che, mancando dell’introito dell’ingresso, soffrirebbero molti costi.

 

E’ un problema serio che va affrontato al più presto, insieme a tutti gli attori: scuole calcio, società dilettantistiche, genitori, Coni, Federazione e amministrazioni comunali. Si tratta di affrontare e risolvere, questioni che vedono molte famiglie in difficoltà economiche per vari motivi, il lavoro, le spese sempre più esorbitanti per vivere, la casa, la macchina, insomma di tutti i santi giorni che ognuno di noi è chiamato ad affrontare, spesso, con mille difficoltà e con molte rinunce. Anche quelle di soffrire chiusi in casa, aspettando notizie da altri genitori di come è andata la partita del proprio ragazzo. Una dignità senza fine, una amore per i propri figli che supera qualsiasi difficoltà sia economica che umana, insegnamenti alle rinunce e alle privazioni per il solo amore verso i propri ragazzi. E’ poco importa se non ha segnato o ha giocato poco: sono riuscito lo stesso anche se non ho potuto vederlo, far divertire mio figlio, farlo giocare, e la mia felicità sarà completa quando lui, stanco della partita, rientrerà a casa e mi racconterà con quegli occhi felici e gioiosi di come ha giocato o di come hanno vinto. E io allora è come se avessi pagato i 5 euro per l’ingresso, perchè non c’è più bel racconto di una partita di calcio, raccontata dal proprio figlio: genuina e vera, gioiosa e felice, anche se il bambino poi, finito il racconto chiederà al proprio papà:

<<Potevi venire. Vedessi che bel gol che ho fatto!>> Allora il papà guardandolo con quella tenerezza che solo un genitore può avere, accorgendosi che un “moscerino” gli è entrato negli occhi, gli risponderà con un grande bacio sulla fronte. E’ abbracciandolo con la mano si asciugherà quella “lacrima” di rabbia, senza farsi vedere, che gli è uscita dagli occhi per non averlo potuto andare a vederlo. Ma c’era la spesa da fare! 

 

 

Torino, 03/01/2017

 

<<Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste mai immaginare. Bambini e ragazzi alla ricerca di un pallone per giocare nelle feste natalizie. Palleggi nei corridoi di casa con alberi di natale sfasciati. Partite interminabili tra natale e Capodanno nelle vie e nei cortili. Papà alla ricerca delle foto del proprio ragazzo mentre fa gol per rivivere momenti magici. Mamme disperate dei vasi rotti con il pallone. E’ tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia.

E’ tempo di giocare!

 

Questo, parafrasando, come disse l’attore Rutger Hauer nel film “Blade Runner", potrebbe essere il titolo della fine delle feste natalizie e la pausa calcistica dei nostri ragazzi ma anche dei disperati genitori che, in questi giorni hanno vissuto l’astinenza del calcio. Tra un piatto di lenticchie e cotechino e una fetta di panettone, papà e mamme a raccontare a parenti e amici, le mirabolanti imprese calcistiche del proprio ragazzo, messaggi segreti tra i bambini per organizzare, tra natale e capodanno, una partita, interminabile, nei cortili o nei campi del parco giochi, per inaugurare le nuove scarpette ricevute come regalo di natale, passaggi nelle scuole calcio con i cancelli chiusi, perché non si sa mai magari hanno riaperto, telefonate tra i vari genitori della squadra del proprio ragazzo per sapere quando iniziavano gli allenamenti e i tornei post natalizi. Tutto questo con l’ansia di chi, per solo una decina di giorni, non è riuscito a staccarsi e riposarsi dalle fatiche e impegni che il proprio figlio impone con il calcio.

 

 

Ora è tempo di giocare. Ora è tempo della ripresa degli allenamenti, con gioia dei ragazzi e sollievo dei genitori, ora è il tempo dell’inizio dei tornei o di quelli sospesi per le feste. Si ricomincia con orari impossibili, con le corse al campo, con gli impegni delle partite. I papà sono sicuramente stati i più attenti, almeno quelli che hanno il campione in casa, alla dieta e se il proprio figlio ha messo la “pancetta”, senza guardare la propria che è gonfiata a dismisura per i pranzi natalizi sempre più abbondanti: <<Sai che ti dico Luca? Andiamo a fare una corsa così smaltiamo tutti i grassi accumulati. Così quando ritorni agli allenamenti sarai in forma>>. Nel frattempo, ma questo è il calcio giovanile, si sono venuti a sapere di compagni della propria squadra che, vittime della stella di natale che ancora continua a volare in cielo, hanno improvvisamente cambiato società e portato il figlio a giocare da un’altra parte, complice la possibilità di svincolo natalizio previsto dal regolamento: <<Ma come mai?Ma sai ero stanco di vederlo sempre in panchina è giocare poco. Pensa che come lo hanno visto al provino, il Mister lo ha messo subito in prima squadra. Così si prende una bella rivincita>>.

 

Sempre la solita storia, i papà allenatori insoddisfatti non si sono fermati neanche con la nascita del “Bambinello Gesù”, imperterriti nel cercare sempre il “primo gruppo” ovunque esso sia perché, secondo lui il proprio ragazzo è forte e non era considerato dal “Mister”. Sarà magari vero, o forse indispettito perché quella società ha fatto giocare le proprie squadre anche durante le feste natalizie, in quei tornei più o meno blasonati, magari vincendoli mentre la sua società non aveva organizzato nulla, e allora lo porta li, magari l’anno prossimo per Natale giocherà anche lui invece di stare a casa. In particolare i papà che hanno i propri ragazzi nella categoria Esordienti 2004, che sarà l’ultimo anno di scuola calcio, in quanto la prossima stagione entreranno nel settore giovanile. Eh già. Perché adesso incominciano le ansie, le notti insonni se il proprio figlio verrà riconfermato, o piuttosto come accade spesso, essere chiamati a Giugno a fine scuola calcio, per sentirsi dire che per il proprio ragazzo, seppur bravo, non ci sarà posto nel settore giovanile.

 

Purtroppo questi ed altri aspetti, sono i lati negativi di un calcio giovanile sempre più in declino sotto il profilo del sano gioco.  E’ l’eterna lotta tra i genitori e i figli più o meno bravi, con le società che sono sempre più tese ad avere solo gente brava tecnicamente, lasciandosi alle spalle ragazzi che magari per cinque o sei anni sono stati con loro. Una pratica, se si vuole, poco ortodossa ma che si ripete ad ogni annata nell’ultimo anno di scuola calcio, creando sempre più divisioni e lacerando in tanti ragazzi quello spirito di divertirsi correndo dietro un pallone: perché si inizia a far sul serio, squalifiche, panchina, tabellini, pagelle nei giornali ecc. Mi domando: ma tutti quei ragazzi che vengono lasciati a fine scuola calcio e che non trovano più posto dove vanno? Eh si. Se sono veramente scarsi non dovrebbero prenderli nessuna società. O mi sbaglio? Forse non mi sbaglio, perché alla fine essendo soggettiva la valutazione tecnica e individuale che si fa sui ragazzi, ci sarà sempre qualcuno che per lui quel ragazzo ha delle qualità e può benissimo giocare. Per fortuna è così. E poi magari quei ragazzi si riveleranno più bravi dei loro ex compagni che erano stati sopravalutati. Insomma, il nuovo Anno non ha portato nulla di nuovo, ha solo cancellato per qualche istante, ma ha lasciato tutto così come era prima. La speranza è che la Befana nelle calze porti, oltre al carbone e i dolci, anche una buona razione di saggezza e umanità per questo sport sempre più decadente e schizofrenico. Portandosi via, non solo le feste, ma tutte quelle malinconie che spesso vedo negli occhi di tanti ragazzi che lo giocano e nei loro genitori, sempre più delusi da uno sport che predilige l’incasso piuttosto che il far vivere in serenità il gioco del calcio.

 

A proposito: a Comelico Superiore, il paese in provincia di Belluno, dove si gioca esclusivamente per le vie o le piazze del paese, così deciso da una attenta amministrazione comunale, il torneo di natale è iniziato la vigilia e si è concluso il primo dell’anno, giocato da tutti i bambini e ragazzi di tutte le età ininterrottamente senza tregua. Un bel torneo, divertente e pieno di gol, giocato nei vicoli e nelle vie, tra un pranzo di Natale e Santo Stefano, nella notte del primo dell’Anno, affollati da papà, mamme, nonni e villeggianti; non c’è stato nessun vincitore e tutti sono stati premiati, tutti i ragazzi si sono divertiti e nelle pause delle partite giocate si è mangiato magari qualche fetta di panettone o bevuto qualche bicchiere di spumante. I rigori? Li hanno tirati i nonni i più attenti al divertimento dei propri nipoti. Roba d’altri tempi che non esistono più se non nel mio ricordo di ragazzino.  A tutti voi il mio affettuoso augurio di un Buon 2017!

 

 

Torino, 20/12/2016

 

Ultimi scampoli di Tornei, ultimi allenamenti e ormai siamo entrati nella settimana di Natale. Ora inizia la corsa, se pur breve, alla caccia del regalo da mettere sotto l’albero: scarpette con i tacchetti, scalda colli e berretti, set di shampi per le docce e l’immancabile pallone, tutti da regalare al proprio ragazzo, e tutti, genitori e parenti alla corsa per accaparrarsi l’agognato regalo calcistico per il proprio campione. Non mancherà certamente la maglia della squadra del cuore! Ora è tempo di festa e di riflessione, non quella religiosa del Bambin Gesù che nasce in una grotta poverello e senza nulla, i nostri Bambin Gesù, rispetto a quello nato a Nazareth, sognano le scarpette firmate come oggi usano i calciatori famosi piuttosto che i berretti e scalda colli personalizzati con le proprie iniziali; tutte naturalmente frutto delle iniziative dei genitori decisi nei pranzi o cene di Natale, che immancabilmente si sono fatte in questi giorni. <<Così facciamo gruppo>>, queste generalmente le parole usate per convincere i più riottosi a venire.

 

Ora è tempo di bilanci di metà stagione per il proprio ragazzo e per come sta giocando. Vedo già in questi giorni Papà che si aggirano con il borsone e il proprio figlio, da una scuola calcio all’altra, da una società all’altra, per fargli fare un provino deluso, il Papà, di come viene impiegato suo figlio, che gioca poco o magari la squadra non è “forte”. Da una parte all’altra della città e della provincia, arrivano questi ragazzi infreddoliti quasi timidi per fare un provino, il papà che a fine provino parla con il responsabile per sentire un responso positivo: <<Si è bravino. Magari ne riparliamo a Giugno se vuole>>. Oppure: <<Per me possiamo fare già il cartellino se lei chiede lo svincolo dove gioca adesso>>. Questo nei casi in cui il ragazzo è veramente bravo e non se lo vogliono lasciar scappare. E’ tutto ciò sempre senza sentire l’incolpevole e a volte deluso figliolo, che magari avrebbe voluto rimanere dove era con i suoi vecchi amici e compagni di squadra a continuare a giocare, e poco importa se a volte rimane in panchina, lui è contento così. Ma si sa, i padri protettivi che hanno figli che sono campioni di calcio, la pensano diversamente. “lo fanno per il loro bene”. Tecnicamente parlando per intenderci.

 

 

Nelle famiglie normali, invece, che non hanno campioni da assicurare in una altra società, si festeggia questo, speriamo, sereno Natale e tra una fetta di panettone e un bicchiere di spumante, dopo aver aperto i regali, si penserà da subito alla ripresa degli impegni calcistici. Già. Perché già da Martedì prossimo si ricomincia. Iniziano le corse per gli allenamenti, i Tornei, correndo da una parte all’altra della provincia senza sosta fino a Giugno. La pausa è solo breve e magari serve per ripercorrere con la mente, le prestazioni da migliorare e cercare di convincere il proprio ragazzo, magari mentre è intento a giocare con la Play Station, che deve essere più avanzato, deve passare la palla prima e non ascoltare cosa gli dice l’allenatore. Questo per i Papà allenatori che non riescono a stare fermi neanche per Natale. Parenti e Zii per il pranzo di Natale che chiedono al ragazzo come va: <<Ho saputo che sei bravo. Complimenti continua così>>, sotto gli occhi soddisfatti del papà che poi aggiunge racconti mirabolanti delle imprese fatte dal proprio figlio durante le partite: gol da meraviglia, parate da campioni, discese bevendosi avversari come birilli, passaggi millimetrici misurati con il laser, articoli dove c’è la sua squadra con la foto ritagliata e incorniciata, richieste di squadre di serie A che vogliono fargli fare un provino al figlio perché bravissimo, e così via fino all’esaurimento per chi ascolta e che magari di calcio non gli importa nulla. Le persone “normali”. La scuola calcio, di qualsiasi società, è la gioia e i dolori per ogni padre che ha un figlio che gioca. Se vincono va tutto bene, se incominciano a perdere allora va tutto male e il proprio ragazzo non migliora, quindi bisogna portarlo da un’altra parte.

 

Ho letto, per i genitori “anormali” come tutti noi appassionati di calcio che, il comune di Comelico Superiore, in provincia di Belluno, paesino di 2400 anime nella Valcamonica, ha aperto una scuola calcio di quelle che non esistono più che una volta spopolavano nel nostro paese e che hanno dato i natali a tanti campioni del passato. Hanno persino messo un cartello di avviso per gli automobilisti all’ingresso del paese: << Attenzione rallentare. In questo paese i bambini giocano ancora per strada>>, con tanto di foto di ragazzi che giocano al pallone. Una scuola calcio libera è sempre aperta, che comprende tutte le vie del paese, tutte le piazze e i vicoli, dove i ragazzi sono tutto: allenatori, giocatori, tecnici, arbitri. Non avrà attrezzature, porte, cinesini, ma ha la libertà che tanti non hanno: quella di giocare liberamente, divertirsi e far divertire i propri genitori con le loro prodezze, utilizzando le proprie capacità e le proprie voglie di divertimento.

 

Da ragazzo, io, ne avevo frequentato una e il ricordo di quella via in salita con le porte di pietra, è ancora vivo dentro di me. Immagino già il giorno di Natale o di Santo Stefano, finire il pranzo in fretta, perché a differenza dei nostri ragazzi che vanno nelle scuole calcio titolate, loro hanno la partita da fare nella via o nella piazza del paese. Un torneo natalizio già programmato da loro stessi e dalla loro voglia di divertimento per questo bellissimo sport. Li invidio questi ragazzi e potessi andrei a Comelico Superiore, il giorno di Natale, per commentare e fare un articolo sulle partite che giocheranno e che dureranno sicuramente l’intera giornata, fino allo sfinimento e senza vincitori o vinti. Di certo avrà vinto lui, il pallone, che stanco di essere preso a calci anche a Natale, si sgonfierà per esaurimento finendo nello spogliatoio che è la strada, perdendosi magari in qualche giardino o in una scarpata difficilmente da raggiungere. Sarà sicuramente un Natale diverso per tutti loro che, non hanno magari scarpe firmate o scalda colli con le iniziali, ma avranno sicuramente quella voglia di giocare allo sfinimento che li accomuna nel sano divertimento.  In fondo bisogna solo correre e dare dei calci a un pallone e cercare di metterlo in una rete. Buon Natale a Tutti!

 

 

 

Torino, 13/12/2016

 

E’ così un altro weekend di ponte feriale è passato. Un’altra domenica è volata via. C’è chi l’ha passata in montagna a sciare, nobile sport, ma che non da l’adrenalina del calcio, chi ha scelto di farsi un weekend in una città turistica a visitar musei, chi è andato al mare approfittando di belle giornate. Chi magari, ha dormito tutto il giorno perché il sabato sera è andato a “sballare”, chi l’ha passata davanti alla tv, con tutta la famiglia e figli ad annoiarsi, chi con gli amici in qualche ristorante e la passeggiata tra le colline.

 

C’è chi, invece, la domenica la passa in maniera del tutto particolare. E sono tanti, tanti sacrifici, corse in macchina per non arrivare tardi all’appuntamento. Ci si sveglia presto, si va nella cameretta del proprio ragazzo. Lui è già pronto, vestito e borsone già fatto. Ha già un mix di tensione, ansia, adrenalina, voglia, con un unico pensiero in testa: La partita! Quella partita attesa per tutta la settimana, frutto di duri allenamenti, al freddo fino a tarda sera, i genitori intirizziti sugli spalti a guardarli, a cercare di cogliere al volo lo stato tecnico del proprio ragazzo. Ora finalmente è arrivata. Dai Piccoli Amici, ma piccoli veramente, per arrivare fino alle categorie dilettanti, qualsiasi essa sia, la categoria, la domenica è tutto ciò che si accende dentro di loro.

 

 

E’ un giorno “speciale”, dove i “ragazzi” lasciano tutti i pensieri quotidiani, la scuola, i giochi non terminati alla Play Station, li lasciano in un angolo: li riprenderanno dopo. Rinunciano come tanti loro coetanei, alle passeggiate, ai pic nic, al cinema, alle giostre, alla discoteca, allo “struscio”, alle passeggiate nei centri commerciali, ai comodi divani davanti alle tv, dedicando anima e corpo alla propria squadra, ai propri compagni. Sotto la pioggia, al vento, al freddo, alla nebbia, sui campi di periferia, sperduti a volte nelle campagne o sui comodi terreni sintetici. E allora c’è chi non capisce e chiede: “Perché?”. E come fai tu ragazzo, tu genitore a rispondere a una semplice domanda? Non c’è una risposta, non si può spiegare. Ogni benedetta o maledetta domenica tutti quei “ragazzi” sono lì, a correre e dannarsi l’anima dietro a un pallone, ad una azione che può portare al “gol” per abbracciarsi insieme, un gruppo, un’anima, una forza sola, quella compattezza frutto di sacrifici settimanali, di calci presi, di caviglie gonfie e di tante e tante rinunce. Gli “altri”, non possono capire: devi avercelo dentro.

 

E allora via. E’ già tardi. Colazione veloce, controllo del borsone, manca la maglia termica: “Mamma dov’è la maglia termica? E’ tardi sono già le 9”. La mamma sorpresa: “ ma non giocate alle 10,30?” “Si. Ma devo essere un’ora prima al campo, lo sai.” Via, con il papà, anche lui pieno di adrenalina e tensione, verso il campo che sia in casa o fuori casa, si arriva sempre prima e sempre dopo la partita ci si ferma per i commenti sul risultato. Tanti sacrifici dei ragazzi e dei genitori, accompagnano ogni domenica i pranzi saltati con tutta la famiglia, le passeggiate delle persone “normali”. Loro, i ragazzi, i genitori, appartengono a quella categoria di persone “anormali”, quelli che il calcio è lo scorrere di tutta la settimana che culmina nella partita di campionato o del torneo la domenica. Poi si ritorna a casa, tardi naturalmente, se si è vinto allora il resto della giornata può essere dedicato al resto della famiglia, se si è perso tutto diventa pesante, respiri un’aria di dolore, di tristezza: “dove ho sbagliato”. Il papà non ha nemmeno voglia di uscire o di farsi la passeggiata reclamata dal resto della famiglia, la sconfitta lascia sempre un amaro difficilmente da digerire. Bisogna finire i compiti e rilassarsi un po per pensare alla ripresa della scuola il giorno dopo, ma il lunedì è un giorno particolare per tutti quei “ragazzi”: ci sono gli allenamenti. Non si smette mai, il calcio è quella cosa che ti entra dentro è come una “droga” ti prende ogni giorno di più, non riesci a farne a meno, sei dipendente da lui, il solo pensare alla pausa natalizia, ti fa star già male.

 

Già il Lunedì. Non è il primo giorno della settimana, per gli altri sicuramente,  ma per “loro” no. Il lunedì è il giorno di inizio allenamenti, il primo giorno di fatica, di esercizi, di tecnica e non importa se piove o fa freddo, è il giorno particolare dove il ragazzo arriva al campo e ritrova i suoi compagni, il suo “Mister”, che incomincia prima degli allenamenti il solito discorso di analisi su come è andata ieri, come hanno giocato, dove hanno sbagliato, le correzioni tattiche da correggere. E’ il giorno dell’inizio delle fatiche, delle corse e non solo per i ragazzi ma anche per i genitori. Ci sono papà che fanno quasi da “pulmann”, raccogliendo casa per casa i ragazzi da portare all’allenamento, perchè gli altri papà o mamme lavorano e non riescono a portarli. Loro, non sono come gli altri, scandiscono la loro vita quotidiana con gli impegni sempre più pressanti del proprio ragazzo.  Il Lunedì è forse il giorno più intenso. Dentro la testa c’è un frenetico susseguirsi di pensieri, eventi, emozioni. Sei li, al campo, per gioire per una vittoria o un pareggio acchiappato all’ultimo minuto assieme ai tuoi compagni, o peggio, sei li a non avere voglia di fare nulla imprecando per una sconfitta o una vittoria buttata via per un soffio. Magari, il ragazzo, ha passato tutta la domenica notte, tutta la giornata a pensare e ripensare a quel momento quando la palla gli è scivolata via. Magari il ragazzo è stato il migliore in campo, ha vinto ed è al settimo cielo. Oppure è li a rimurginare sulla partitaccia della domenica, su quell’errore fatto che è costata la vittoria alla squadra.

 

Agli occhi degli amici, della sorella, della mamma, e di tutti quelli “normali”, è un pazzoide, un esaltato, uno che passa il tempo a rincorrere un pallone prendendo calci sugli stinchi e con le gambe che gli diventano sempre più storte. “Prendi il calcio troppo sul serio…..” Non c’è frase, parola, più bella che si possa sentire per chi fa del calcio la passione più grande, più vera, lo scopo della propria giovinezza. Poi però arriva la sera del lunedì, tornando a casa stravolto dall’allenamento, intirizzito di freddo, le gambe che gli fanno male, il ragazzo, è già proiettato alla partita successiva di domenica prossima. Non c’è più tempo per riflettere o rispondere a quella domanda, non avrebbe la forza per trovare parole, la settimana vola via presto tra allenamenti e scuola: E’ già domenica.

 

Lunedì mentre guardavo un allenamento, faceva freddo, c’era un po di nebbia ed era già buio, c’erano i Piccoli Amici del 2009, si avete capito bene quasi sette anni, che si allenavano in un angolo freddo del campo. All’improvviso uno di loro alto si è no un metro, vestito di tutto punto, si ferma e si mette le mani in testa piangendo. Aveva freddo e non aveva il berrettino in testa, non riusciva più ad andare avanti assieme ai suoi compagni. Un suo compagno gli si avvicina si toglie il suo berretto e lo mette in testa a lui che, prontamente gli da un “cinque” a mo di ringraziamento. Il bambino prosegue l’allenamento sotto gli occhi soddisfatti del “Mister” e dei genitori sugli spalti. Un gesto che vuol dire tutto, un gesto che vale una passeggiata in centro o una gita in montagna piuttosto che stare a casa al caldo davanti alla tv. Questo è il calcio, questi sono i nostri “normali” ragazzi che ogni domenica, ma anche ogni lunedì!

 

 

Torino 06/12/2016

 

Domenica, si sono conclusi i campionati autunnali della categoria Esordienti, e la prossima settimana si concluderanno anche quelli riservati alla categoria Pulcini. Già i primi verdetti, le prime valutazioni,  le prime analisi, le prime gioie, le prime delusioni. Noi come sempre, siamo convinti che alla fine, al di là delle classifiche, i campionati lo hanno vinto tutte le squadre e tutti i ragazzi che vi hanno partecipato. Sarebbe contrario alla nostra fede di “universalità” e divertimento di questo bellissimo sport. E’ vero, qualche delusione per qualche società ci sarà magari stata, qualche Papà magari è intenzionato a portare il proprio figlio a giocare da un’altra società che magari ha vinto il campionato, cosa sbagliata e contraria ai principi fondamentali che il “calcio”, è uno sport dove si vince e si perde, ma sempre a fasi alternante. In questi due mesi di competizione, come voi, ho visto questi ragazzi dannarsi l’anima nelle partite, dare tutto, gioire e piangere, rabbia e divertimento, ma ho visto anche una crescita di consapevolezza in questi ragazzi: vuoi per l’età già più matura, vuoi perché anche noi genitori incominciamo a essere meno pressanti sui nostri figli, in una valutazione generale dei campionati, si può affermare con sincerità che hanno vinto loro: i Ragazzi!

 

 

Ma i veri protagonisti come al solito sono stati i genitori dei baby calciatori, con i loro eccessi, le aspettative altissime, la passione o l’ossessione, lo spirito di squadra e le invidie. E anche gli allenatori, con gli stili più disparati. Sui campi minori accade di tutto.
Molte volte a scatenare le risse sono le Mamme che provocano facendo commenti ad alta voce. Dicono “poverino” il numero 11, è rachitico” oppure “il numero 7 è un animale, fatelo giocare a rugby”». Se la mamma del giocatore in questione reagisce, volano schiaffi. Poi intervengono anche i rispettivi mariti e allora deve accorrere la polizia. I papà, appunto. «C’è il padre che si attacca alla rete e urla suggerimenti al figlio. C’è quello che riprende le partite con la videocamera, per mostrargli gli errori. E ci sono genitori che, nei giorni in cui la squadra non si allena, allenano da soli il figlio con sessioni extra».

 

Un padre, convinto di avere in casa un campione incompreso, in un anno gli ha fatto cambiare sette squadre. È vero, vincere è l’unica cosa che conta.

«Ma se la squadra perde, i bambini sono tristi, poi gli passa. Ci sono genitori che perdono il sonno, che arrivano a picchiare i compagni di squadra, come è successo qualche tempo fa in una squadra di una provincia del Sud.

Nei giorni scorsi, sono venuto a sapere che un ragazzo in “osservazione” che milita in una società della provincia Torinese è stato scelto da un team di serie A, e ora è capitano. Gioire per la bravura altrui non è facile. «Secondo alcune statistiche, solo un bambino su 40 mila riesce a diventare un calciatore professionista».

Più si sale di livello e più la “selezione è spietata. Stando in società amatoriali importanti c’è più visibilità. E se non basta, entra in gioco l’arte della “raccomandazione”. «C’è chi usa contatti personali per fare entrare i figli nelle grandi società, ma se il bambino atleticamente non è pronto finisce in un ruolo marginale».

 

Chissà se mio figlio diventerà un professionista. «Se sarà così, bene. Ma di certo non è l’obiettivo di vita mio e di mia moglie. Noi abbiamo fatto un patto con lui: prima c’è la scuola, perché il calcio non deve compromettere la sua formazione. E siamo felici che continui a coltivare anche altre passioni, come la lettura e la musica». Così ho sentito dire da un genitore in una partita di Esordienti.

«Ci sono gli eccessi, ma anche lati bellissimi, come la condivisione, il rispetto delle regole, lo spirito di squadra. Il mondo del calcio è democratico. In squadra ci sono il figlio del muratore e dell’avvocato, dell’impiegato e del pregiudicato, del disoccupato e dell’immigrato. Persone che nella vita reale non prenderebbero neppure un caffè insieme e invece lì, tra gli splati, fanno gruppo. E sono pronti ad abbracciarsi per un gol».

 

Ora che la competizione è finita, iniziano i vari Tornei Natalizi: L’albero con il pallone, la stella di Natale, un Natale nel calcio, e così via con i vari titoli di poca fantasia che le varie società danno ai Tornei in questione, per non far perdere il gusto del calcio ai ragazzi. Iniziano le varie corse in giro per la Provincia di Torino, i pasti saltati, la speranza delle qualificazioni nelle fasi finali, per vedere il proprio ragazzo alzare una “coppa” e la fatidica medaglietta, sempre uguale a tutti gli altri e riciclata nel corso degli anni, e la solita foto di rito. “Se vinci il Torneo, quest’anno per Natale, Papà ti regala la Play Station”. Oppure: “Se arrivate primi, i compiti di natale te li faccio io”. Ancora: “se segni ti regalo 20 euro”.  E’ così! Io l’ho sentito con le mie orecchie, rimanendo di stucco.

 

Il mio pensiero in questi giorni, va a quei ragazzi Brasiliani, della squadra del Chapacoense, che hanno perso la vita tragicamente in quel “dannato” incidente aereo. Vite di giovani spezzate e accumunati in un destino assurdo con il disastro della squadra del Torino e del Manchester. Erano dei ragazzi che fino a poco tempo fa militavano nei dilettanti, come i nostri ragazzi, giocavano nei campi di periferia come i nostri ragazzi, sognavano di diventare campioni e campioni sono diventati, la loro capacità, la loro voglia e la loro bravura, li aveva portati fino alla serie A Brasiliana e fino a conquistare la finale della Coppa America del Sud, appunto, stavano volando per andare a giocarsi la partita della vita, il loro sogno inseguito per anni, e la loro vita, il loro sogno, è stato spezzato da una tragedia che tutti noi abbiamo visto: volti sorridenti seduti in quell’aereo, le promesse di vincere, la felicità nei loro occhi. Anche loro erano come i nostri figli, anche loro hanno iniziato nei campetti delle “Favelas”, anche loro avevano i sogni da realizzare. E forse, anche loro avevano i Papà e le Mamme che si aggrappavano alle reti o urlavano all’arbitro. Ora sono stati accolti nel paradiso del calcio, dai giocatori del Torino, del Manchester  e insieme finalmente potranno giocare la loro finale, dove non ci sarà nessun perdente. Ma tutto si è infranto in quel mattino triste e la loro tragedia ci ha colpiti tutti. Il loro sogno che continua negli occhi dei nostri ragazzi ogni domenica nei campi a giocare al CALCIO!

 

 

Torino, 22/11/2016

 

Sabato sera ero deciso a comunicare alla redazione del giornale, che non avrei potuto più continuare la mia collaborazione (per la gioia di molti e la disperazione di pochi), in quanto ero stanco di assistere a una decadenza continua e indegna di questo “sport”, ma soprattutto del comportamento degli adulti che fanno morire dentro ai ragazzi e bambini la passione del calcio, prendendoli in giro tradendo la loro freschezza e ingenuità. Apprendisti stregoni e oracoli di calcio.  

 

Io appartengo ad un altro calcio che non esiste più, quello di tanti anni fa. Un calcio vero dove non esistevano le industrie delle scuole calcio che badano solo al fatturato, dove non si diceva: “suo figlio è un campione” per incassare la retta, dove se eri veramente bravo, al massimo potevi giocare nelle parrocchie, si giocava per strada non c’era nessun arbitro. La partita era arbitrata da noi stessi e un fallo o un rigore veniva discusso all’infinito ma poi nessuno rimaneva deluso. Cosa che dovrebbe essere così anche oggi. Cioè tutte le categorie della scuola calcio, come anche incoraggiato dalla federazione, dovrebbero essere auto arbitrate e non con un papà vestito come il miglior “fischietto” che si erge a arbitro, avvantaggiando spesse volte la squadra di casa. Poi, non ci dovrebbero essere classifiche e i punteggi la Federazione li da in base ai tempi e non come le partite vere. Ma si sa, siamo un paese di santi, navigatori, poeti e intenditori di calcio.  E poi bisogna vendere: giornali, completi da calcio, scarpe ecc. Poi, gli occhi di un ragazzino pieni di speranza e il gesto di un giocatore della squadra di Siracusa (la mia terra non tradisce mai) che milita nel campionato Eccellenza della bellissima isola mi hanno fatto desistere.

 

 

Dunque, Sabato nel tardo pomeriggio, fa freddo, vado a vedere una partita di campionato della categoria Esordienti ultimo anno di scuola calcio per fortuna, o no? Si gioca a Torino. Come sempre arrivo prima, prendo un caffè anche se l’ora è tarda, mi aggiro tra i campi, ci sono i piccoli, sempre uno spettacolo vederli, che fanno allenamento e soprattutto guardo le facce dei dirigenti e tecnici della squadra di casa. Facce truci. Avete fatto caso che ogni volta che si va ospiti da un’altra società si vedono spesso facce truci? Non ho capito perché. Dovrebbe essere al contrario, cordialità, sorrisi e gentilezza. No. Invece la faccia truce incute timore, forse è la convinzione di questi “educatori”. Nel frattempo le squadre sono arrivate, riscaldamento e poi finalmente vedo apparire l’arbitro (anche lui sguardo truce) della partita che è un allenatore della squadra di casa e che ha il proprio figlio che gioca nella squadra che dovrà vedersela proprio quella sera contro gli ospiti. Insomma: lui arbitrerà suo figlio e la squadra di suo figlio. Il classico "Papà Arbitro". Indossa una divisa sgargiante alla COLLINA, e fa parte di quei circa 70 milioni di Italiani esperti di questo sport che ogni domenica diventano arbitri.

 

Appello e tutti in campo schierati: pronti via. I primi dieci minuti della gara sono di sostanziale equilibrio, le due squadre si affrontano a viso aperto, ma già il  “papà arbitro” si distingue per le sue decisioni. Vedo un fallo su un difensore ospite che cade a terra e lo sento piangere dal dolore, ma lui, il papà arbitro non fischia; un altro fallo sempre su un giocatore ospite non viene sanzionato dalla sua inflessibilità. Poi su un contropiede della “sua” squadra si scontrano attaccante e difensore ospite: inflessibile e senza dubbi decreta il calcio di rigore a favore loro. A nulla valgono le proteste dei ragazzini della squadra ospite. Tiro gol. Poi i padroni di casa nel secondo tempo raddoppiano, e non per merito del papà arbitro, ma per loro bravura su un micidiale contropiede.

 

Tutto poi accade nel terzo tempo quando la squadra ospite si riversa nell’area avversaria per cercare di accorciare le distanze e cercare il pareggio. Un assedio: riescono a segnare da un tiro da fuori area. Il miracolo forse consiste nel fatto che il papà arbitro non lo annulli per qualche motivo. Ma, visto che mancavano pochi minuti alla fine della partita, non ci sarebbe stato pericolo per un altro gol che avrebbe segnato il pareggio per la sua squadra. Ma invece, è questo è il bello del calcio dei ragazzi, gli ospiti non mollano. Nel frattempo continuano a  susseguirsi una serie di decisioni arbitrali molto discutibili. Noto però con sorpresa un certo silenzio tra i genitori tifosi di casa, poca esultanza e pacatezza. Evidentemente si rendono conto della non propria corretta condotta dell'arbitro. Poi a circa tre minuti dal termine della gara, un assedio continuo degli ospiti in area, un difensore di casa tocca la palla “volontariamente” con la mano deviandola dal tiro che sarebbe andato in porta.

 

E' qui, e non per il risultato, è venuta fuori la mia decisione di non scrivere più di questo inquinatisssimo sport, che tradisce i ragazzi che vorrebbero giocare, la passione, la giusta imparzialità nel gioco e nella vita, la vera sostanza genuina del gioco del calcio. Il papà arbitro inflessibile alle proteste dei ragazzini arrabbiati non concede il rigore, anzi, espelle un dirigente ospite che protestava, allontana in malo modo i ragazzi e continua con le sue piroette e atteggiamenti da arbitro internazionale certo della sua capacità e della sua preparazione tecnica. Cala un silenzio di tomba fuori dal campo. Vedo i ragazzi ospiti delusi, arrabbiati e pieni di sconforto su una cosa sacrosanta di cui avevano diritto, e vedo i ragazzi di casa che non gioiscono affatto, anzi, dentro di loro sapevano che sarebbe stato giusto dare il rigore a loro sfavore e che non era giusto che finisse così.

 

Tre minuti e finisce la gara. Vedo la squadra ospite uscire a testa bassa e con poca voglia di sorridere per un pomeriggio giocato al pallone. Noto e voglio fare notare il Mister della squadra di casa andare a porgere le sue scuse al Mister ospite per il comportamento del papà arbitro. Non sento commenti  dei genitori di casa ne tra quelli degli ospiti. Vedo invece il papà arbitro andare ad abbracciare il proprio figlio e la sua squadra, complimentandosi con loro. E di cosa? A cosa è servita la vittoria della squadra di casa? La verità è che non ha vinto nessuno, è stata se vogliamo una vittoria di PIRRO (che non era un giocatore). Hanno perso tutti e ventidue i ragazzi, ha perso l’amore per questo sport dei ragazzi, la sua genuinità, l’imparzialità, ma soprattutto ha perso l’educazione della competizione sportiva, come sempre rovinata dagli adulti che si ergono a giudici a secondo della propria convenienza.

 

Questo, raccontato con minuziosità di particolari solo per far capire il danno arrecato ai giovani ragazzini, che in teoria dovrebbero solo divertirsi ed in questo modo avvicinarsi a piccoli passi al vero calcio dei "grandi", è uno dei tanti episodi, più o meno simili a questo a cui si assiste e a cui vi è capitato almeno una volta di assistere, nei fine settimana sui campi di calcio, soprattutto delle categorie Esordienti. Una categoria molto delicata, di passaggio tra il calcio dei pulcini con l'autoarbitraggio a quella del calcio giovanile con arbitri di federazione, dove vi è la comparsa di una prima forma di arbitro che sono però, come da regolamento federale, tesserati della società ospitante. Vuoi però per la loro poca preparazione/esperienza, vuoi, come in questo caso, per conflitto di interessi personali verso la propria squadra o addirittura verso il proprio figlio, si vengono a creare, in alcuni casi anche solo involontariamente, dei casi di imparzialità che fanno solo del danno al calcio. Spesso accade poi  che la tensione si trasmette dal campo agli spalti, ed è infatti sempre nelle categorie Esordienti dove si registrano i maggiori casi di controversie tra genitori ed arbitri o anche tra genitori stessi. Siamo sicuri che sia la strada giusta? Non sarebbe meglio continuare con l'autoarbitraggio come suggerito inizialmente?

 

E così mi stavo preparando a scrivere le mie dimissioni di editorialista al giornale, e non solo perché ho visto questa partita che mi ha ulteriormente deluso. Sono stanco di assistere ogni fine settimana, come la stragrande maggioranza di voi a questi comportamenti, a vedere gli occhi di bambini e ragazzi, piangere di rabbia per essere stati traditi da un adulto, di essere impotenti contro gli adulti che come sempre danno i cattivi esempi di vita; stanco di sentire “paroloni” sulla correttezza e sull’educazione sportiva, prontamente disattese nel momento della gara; stanco di vedere i papà arbitri, i papà allenatori, i papà dirigenti, i papà tecnici, i papà sottuttoio, i papà tifosi che si azzuffano, i papà che sfogano le proprie rabbie sociali contro ragazzini  e delle targhe che campeggiano in tutte le scuole calcio, diventate oramai vere e proprie aziende di lucro, dove ci sono scritte parole di Fair Play.

 

Poi mentre aspettavo per le eventuali dichiarazioni dei tecnici, che poi non ci sono state, vedo un ragazzino ospite uscire dagli spogliatoi: il suo volto esprime amarezza e delusione, ma i suoi occhi seppur lucidi dai pianti fatti sicuramente negli spogliatoi, esprimono fiducia e comprensione sicuramente verso il papà arbitro e mi chiedo se deve essere un ragazzino di 12 anni, a perdonare un adulto per i suoi insani comportamenti poco educativi. Si avvicina a suo papà e sento che gli dice: “andiamo, tanto oramai è finita così cosa vuoi farci”? Il ragazzino rincuorava il proprio papà: incredibile! Con questo mio comportamento avrei però tradito il coraggio di questo ragazzino, nascondendomi dietro un sistema che tutti criticano ma che nessuno ha mail coraggio di affrontare e denunciare.

 

Dopo questa ultima riflessione mi sono allora pian piano ricreduto anche leggendo quanto accaduto domenica, durante una partita di campionato Eccellenza in Sicilia, tra il Siracusa e un’altra squadra, dove durante uno scontro un giocatore ospite cade a terra e perde i sensi. Accortosi della gravità, un giocatore del Siracusa infischiandosene della partita che continuava, ha preso in braccio il ragazzo svenuto e lo ha portato a bordo campo per le immediate cure. Il gesto ha fatto il giro d’Italia, la Lega Calcio Nazionale subito ha esaltato il gesto, dicendo che questo è il vero gioco del calcio. L’arbitro (anche lui papà) non aveva visto!

 

 

Torino, 15/11/2016

 

Allora cosa avete fatto oggi? <<Hanno giocato così così, ma abbiamo vinto!>> E voi invece? <<Mah. Abbiamo giocato bene. Ma hanno perso.>> Queste supergiù sono le solite risposte, alle solite domande, di come è andata la partita da parte dei genitori. Se hanno vinto, prima persona plurale, se hanno perso terza persona plurale. Non esiste il singolare forse perché, il gioco del calcio, del soccer, del football, della pelotas, è giocato da una squadra composta da 11 giocatori. Il massimo della risposta, forse, consiste nel pareggio. Ma a volte anche in quello, si riesce a inserire qualche verbo. Strano sport quello del calcio, e non per chi lo pratica, ma per i tifosi genitori che riescono puntualmente, sempre, a farsi notare per la particolarità del loro tifo e quindi anche del modo di esprimersi. Ci sono anch’io se abbiamo vinto, non c’ero se hanno perso. E’ un modo strano di partecipare al divertimento, all’educazione allo sport e anche alla crescita tecnica del proprio ragazzo; non oso poi immaginare cosa accada tra le quattro mura di casa, una volta terminata la partita a secondo se si è vinto o perso. Infinite discussioni sulla prestazione del proprio figlio, consigli tecnici, dettati dalla esperienza del papà fatta sui campi di terra quando era giovane. E così via. Tutte naturalmente poi disattese la domenica successiva da parte del proprio figlio, che bene fa ad ascoltare invece i dettati del proprio Mister.

 

Sabato, tardo pomeriggio, vado a vedere una partita della categoria Esordienti a 11 giocatori: “calcio vero”, come molti dicono e non ho ancora capito perché. Forse perché giocano a 11 come i grandi. Ma sempre ragazzini sono. Come sempre arrivo prima per sentire, vedere e saggiare l’atmosfera che aleggia nel campo. Sfida importante tra le due squadre che sono: gli ospiti i primi in classifica, i padroni di casa i secondi. Chi vince prende il volo nel proprio campionato. Arrivano le squadre con i tecnici, dirigenti e genitori, ragazzi che hanno le cuffie all’orecchio che si atteggiano a grandi giocatori, magari i loro idoli, che vedono in tv e che sognano un giorno di diventare come loro. Padri protettivi e genitori che si abbandonano al caffè o alle discussioni prepartita e previsioni sul risultato.

 

 

Nel frattempo sul terreno di gioco, sta terminando una “partitella” di un concentramento, tra due squadre di piccoli bambini nati nel 2009. Ma ve li immaginate? Bambini che sono ancora in lista di attesa per uscire dal “Sant’Anna” di Torino. Una volta scherzando ho detto a un mio amico: << vedrai tra qualche tempo le scuole calcio metteranno degli uffici nei reparti di natalità, dei vari ospedali, in modo tale che li tessereranno appena nati e già pronti per essere futuri campioni. Solo i maschietti naturalmente. Alle femminucce questa fortuna gli è negata.

 

Li vedo giocare e affannarsi in quello spazio ristretto e delimitato dai “cinesini” mentre inizia la partita. Alti neanche un metro che si affannano a tirare in porta per fare “gol”, e genitori che dagli spalti urlano, incitano e vedono già nel proprio figlio la stoffa del campione. Deve essere uno di questi quel papà, che non smette di urlare a ogni palla che il proprio bambino, vestito con una maglia che gli copre gambe, ginocchia e piedini, tocca anche se la manda fuori goffamente o non riesce a tirare in porta: urla talmente forte da far allontanare gli altri genitori, molto più pacati, che voglio vedere il proprio bambino cimentarsi per la prima volta in una sfida. Niente. Le urla continuano e il bambino sul campo continua a guardare il papà e cercare di accontentarlo facendo quello che lui gli dice di fare. In un continuo rimpallo con due bambini avversari, riesce a prendere la palla, non sa neanche lui come ha fatto, e corre verso la porta. Il papà impazzisce, le sue urla si alzano: <<dai, dai, tira, tira,>>. Niente il tiro finisce sull’esterno della rete e il bambino ritorna correndo verso il proprio centrocampo.

 

Passano pochi minuti che la scena si ripete, ma stavolta il suo tiro, complice il portierino avversario che non riesce a bloccarla, finisce in rete e dà inizio a una “samba” urlatrice del proprio papà, che a stento riesce a non scavalcare la rete per finire in campo, in un tirribillio di urla e sbracciamenti che fanno letteralmente allontanare tutti gli altri genitori. Le sue urla si sentono anche a una distanza considerevole, tant’è che la gente curiosa viene a vedere chi è questo papà che urla così forte. Lui, il bambino con la maglia che gli striscia sul terreno di gioco, va ad abbracciare i suoi compagni e gioisce per il gol fatto. Non sa poverino quello che suo padre sta combinando: roba da Talent Show!

 

Finisce la partitella e ha vinto (è giusto il verbo?) la squadra con il bambino che ha il papà urlatore, che poco manca che inizi uno spogliarello per la contentezza del gol fatto dal suo piccolo. I genitori della squadra che ha perso, cercano di mitigare la delusione parlando del tempo e del clima; ottimo diversivo per cercare di non pensare a una delusione. Mentre i genitori della squadra vincente, iniziano le lodi della partita e sprizzano gioia da tutti i pori, tant’è che sicuramente al ritorno a casa diranno: “abbiamo vinto”. Tutti i bambini vanno a prendersi gli applausi, vincenti e perdenti, e tutti i bambini sono contenti perché hanno giocato passando un bel sabato pomeriggio divertendosi e poco importa se loro hanno perso o gli altri hanno vinto. Lasciano ai loro papà, ai loro genitori, ai loro tifosi, la possibilità di mettere verbi accanto alla vittoria o alla sconfitta. Loro, i bambini, vanno ancora all’asilo e non hanno ancora studiato i verbi o la grammatica, i loro papà si che hanno studiato, ma probabilmente non ricordano più.

 

Mentre aspetto che inizi la partita per cui ero andato, aspetto fuori l’uscita di questi piccoli bambini che neanche una foto ben fatta, descriverebbe la loro felicità e la loro gioia. In particolare aspetto il bambino con il papà urlatore; a male pena lo vedo che esce, nascosto com’è da un borsone più grande di lui e da una folta e bella chioma di capelli. Il papà corre verso di lui, lo prende e lo alza per aria urlando sempre <<grande, grande>>, e tutti rimangono sorpresi dalla sua reazione. Lui, il bambino, vorrebbe scendere da quelle braccia che lo fanno un po vergognare perché vorrebbe stare ancora con i suoi compagni, ma niente, il papà non lo molla è suo ostaggio. Poi riesce a divincolarsi e con un volto quasi da vergogna gli sento dire: << papà andiamo dalla nonna che mi aspetta così gli dico che abbiamo vinto>>. Per ora i bambini, vogliono divertirsi soltanto e non pensare ai verbi, ci sarà tempo e modo per studiarli, sia in un campo di calcio che nella vita.

 

Per la cronaca, la partita di campionato degli esordienti, quella come dicono di “calcio vero”, è stata vinta dagli ospiti onestamente più forti dei padroni di casa. E’ stata una bella partita con tanti gol e tante emozioni, e così la squadra ospite prende il volo in campionato. A fine gara, mentre aspetto i “Mister”, per le rituali interviste, vedo arrivare trafelati alcuni genitori ritardatari delle due squadre. Allora come è finità? “Abbiamo vinto!” E’ un altro invece sentendo la risposta del genitore avversario chiede timidamente a un altro papà dalla faccia sconsolata ma serena: Come è andata? La risposta che questo papà da mi fa fare un sobbalzo: <<abbiamo perso.>>. Ha usato la prima persona plurale si vede che lui i verbi, quelli della vita e dello sport li ricorda ancora bene. Prende il suo ragazzo che esce dagli spogliatoi, anche lui con il volto sereno, e abbracciandolo sulle spalle si avviano insieme verso l’uscita, mentre gli altri genitori con il capo mesto, si avviano anche loro verso l’uscita tenendosi a distanza dal proprio ragazzo che “ha perso” e quindi non può godere dell’amore e dell’affetto del proprio papà quel pomeriggio.

 

Dovranno aspettare una vittoria per essere abbracciati anche loro.  Li vedo, il papà e il suo ragazzo, complici di un “verbo”, quello plurale della vita e dall’amore che li accomuna nella consapevolezza di aver passato insieme un bel pomeriggio: il ragazzo giocando e il papà guardandolo giocare. Li guardo, ogni tanto si girano e vedo i volti sorridenti di loro due, mi domando cosa si stiano dicendo. Forse stanno ripassando il verbo “avere”!

 

 

IL MISTER DEI PULCINI.

 

Luca io lo conosco. E’ il Mister di una squadra dei Pulcini 2007, di una società in provincia di Torino.  E’ un bravo tecnico, preparato, serio e affabile, sorriso sempre stampato in viso, dolce con i suoi bambini ma fermo nel guidarli. Laureto all’ISEF, si vede dai suoi gesti e comportamenti sempre attenti e precisi, a costruire un bel rapporto con i suoi “Dieci Figli”, che da due anni allena, guida e li porta di vittoria in vittoria.

 

No, non è una storia strappa lacrime o da libro cuore, anche perché, ho letto che alla fine di Luglio di quest’anno, un suo “collega”, Mister di una squadra di Pulcini primo anno, come lui, di una società altosonante di Parma, ha inviato ad alcuni  bambini stessi (una mancanza di tatto indescrivibile), una lettera con cui gli comunicava che loro non rientravano più nelle logiche della squadra e quindi non erano più confermati. Apriti cielo: genitori in rivolta e la faccenda valica la città del “prosciutto di Parma”, e va nei titoli dei giornali nazionali gridando allo scandalo, per il comportamento, il gesto e la decisione, poco consona per una società che, dovrebbe educare bambini di 8 o 9 anni, si al calcio, ma soprattutto alla vita.

 

Ma questo è un altro problema che abbiamo già affrontato. Ritornando al nostro Mister Luca, lui non manda lettere o richiami, anzi, la stima degli altri “Papà”, lo aiuta nell’allenare e preparare con cura e attenzione la crescita e il divertimento dei bambini e la partita domenicale o i tornei da fare. Per gli allenamenti arriva prima, lo vedo preparare meticolosamente il “campo” con i suoi cinesini, i birilli le aste a delimitare gli esercizi. Poi aspetta il loro arrivo al campo davanti all’ingresso. E’ uno spettacolo vedere il rapporto che questi bambini di 8 o 9 anni che hanno nei suoi confronti: li saluta uno ad uno, attento a non fare particolarità per lui tutti sono uguali e bravi, il sorriso e la tranquillità sempre in volto, diffonde ai suoi bambini sicurezza e guida sicura.

 

Una volta gli ho chiesto: << Ma secondo te chi è il migliore che hai>>? Lui mi guardò con quel sorriso sempre pronto a sdrammatizzare e mi rispose: << Guarda farei un torto a qualcuno. Per me tutti e dieci sono bravissimi e non esiste un “migliore”>>.  I Bambini lo seguono, lo ascoltano e non guardano le gradinate per sentire i suggerimenti dei loro genitori, che in questo caso hanno ben poco da suggerire e sono contentissimi; sentono solo e solamente la sua voce che gli dice come fare gli esercizi, come trattare la palla, come muoversi, come fare la partitella di allenamento. Avete presente dieci bambini di 8 anni agli ordini di un Mister? Si isolano nel loro allenamento e con il loro Mister, non sentono nessun altro, le loro scarpette più piccole a volte del pallone, si muovono all’unisono con gli ordini del loro “capo”. E non manca mai l’abbraccio finale dopo ogni allenamento da parte loro al Mister Luca. Il “cinque” stampato su quelle piccole ma forti manine, o la carezza sulla testa per l’ottimo lavoro svolto. Il bello è che la sua squadra, in campionato o nei tornei, continua a vincere partita dopo partita, e questo aiuta sicuramente a diffondere quel clima di serenità che avvolge non solo i bambini ma i genitori e la stessa società di cui ne va orgogliosa.

 

Insomma se non lo raccontassi così, sarebbe una bellissima favola. Più di una volta, Luca, mi ha invitato a vedere una partita dei suoi bambini.  E’ così, Domenica scorsa, mi sono deciso di andare a vedere la loro partita di campionato. Giocavano in casa contro una squadra forte di Torino. Arrivano i bambini che trascinano i borsoni, per qualcuno più grande di loro, ultime raccomandazioni dei genitori, ma loro subito scappano verso il loro Mister che è li che li aspetta per entrare negli spogliatoi. Mi siedo sulle gradinate insieme ai loro genitori, la squadra entra in campo per il riscaldamento insieme agli avversari. Dieci bambini, dieci futuri ragazzi che da due anni ascoltano e giocano attenti a mettere in pratica quanto in allenamento Mister Luca gli ha detto. Li vedo attenti e concentrati, palloni che rimbalzano e volti sorridenti e forse, consapevoli che loro sono una squadra forte, forse, ma sicuramente un bel gruppo di bambini che giocano e si divertono.

 

Arbitro che dopo “l’appello” fischia e indica l’inizio della partita. Non c’è che dire, la squadra avversaria è proprio forte, ma i bambini di Luca, ci sanno fare, contrasto e ripartenza, gioco aperto sulle fasce per dare respiro alla manovra, concentrazione e lucidità. Luca è li a bordo campo che inizia a dare le prime indicazioni, i suggerimenti, le incitazioni non li lascia mai soli, e loro, sentono solo la sua voce e rispondono come dei robot ai suoi ordini. Così arriva il vantaggio per loro, da una bella azione sulla fascia arriva un traversone che la scarpetta dell’attaccante, insacca rasoterra e fa esultare quel metro e qualcosa vestito con pantaloncini un po grandi e una maglietta che gli arriva quasi al ginocchio. Correndo va subito ad abbracciare il suo Mister insieme ai suoi compagni e quelli seduti in panchina. Da questo noto l’unione che Luca e loro hanno saputo costruire e i genitori che esultano li sento: <<Sono proprio bravi>>, <<che gol!>>. Poi arriva il pareggio della squadra ospite, ma loro, non si scoraggiano e azione su azione, riescono a passare in vantaggio e a ripetere quella scena già qualche minuto prima provata, di felicità e abbracci di gioia. Ma ancora ci sono due tempi da giocare su quel campo delimitato per i Pulcini 2007 1° Anno, ancora tempo, non è finita gli avversari non mollano, li stringono, Luca li aiuta come può da bordo campo e durante le pause dei tempi. Lo vedo con tutti attorno a semicerchio che lo ascoltano, fanno cenno con la testa, sono sicuri che la loro guida è li, con loro e non saranno mai soli, come se dieci bambini di 8 anni, si possano sentire soli in mezzo a un campo di calcio dove si stanno divertendo. Poi arriva il terzo gol dell’attaccante e bomber della squadra, che corre ad abbracciare tutta la panchina e i suoi compagni. Qualcuno dagli spalti li incita e i genitori esultano con loro: <<Forza ragazzi>>. <<Siamo forti>>.

 

Quando si vince si una il plurale, quando si perde il singolare. E’ sempre stato così e fortunatamente per la squadra di Luca, da molto tempo si usa il plurale, anche quando hanno battuto i loro pari annata del Torino a suon di gol in un torneo. Siamo quasi alla fine della partita, nel frattempo gli ospiti hanno accorciato le distanze, siamo sul 3 a 2 per i nostri bambini, quando a pochi minuti dal termine, l’arbitro assegna un rigore per fallo di mano alla squadra di Luca. Allora a battere il rigore che segnerebbe la vittoria certa, arriva Edo, l’ultimo bambino arrivato e già inserito bene nella squadra. I piedini si avvicinano al dischetto, lui guarda la palla, guarda il suo Mister Luca che da bordo campo lo rassicura con il suo solito sorriso, e parte il tiro: la palla per uno strano giro di fisica prende un effetto che invece di rientrare, va verso l’esterno della porta. Palla fuori e rigore sbagliato. Ma ciò che accade in campo mi lascia sorpreso: i compagni corrono ad abbracciarlo e rincuorarlo invece che inveire o arrabbiarsi e Mister Luca da bordo campo gli grida: <<Forza Edo non mollare. Non è successo nulla>>. Non è successo nulla, si è solo sbagliato un rigore, anche se stanno vincendo, un attimo di poca attenzione e la palla è andata fuori.

 

Mi viene in mente allora in quel preciso momento, guardando quei volti sorridenti e felici dei bambini e di Edo un po’ sconsolato, le parole di una famosa canzone di Francesco De Gregori:<<…….Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore. Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia…..>>.  Ed è proprio l’altruismo, il coraggio che quei bambini hanno messo in campo. E quando arriva il fischio finale che decreta la loro vittoria, li vedo correre verso il loro Mister Luca ad abbracciarlo, a sommergerlo con la loro gioia e felicità, si per la vittoria, ma per aver passato una bella domenica di divertimento giocando al pallone. E lui, Mister Luca, si fa sommergere da questa travolgente gioia e felicità, non oppone resistenza all’entusiasmo dei suoi bambini, ha dalla sua la loro forza, la loro voglia di giocare e la certezza della sua guida. Dagli spalti i genitori applaudono ai loro figli, e i loro sguardi sono di soddisfazione. Li vedo che rientrano verso gli spogliatoi, felici e mano nella mano, hanno vinto ancora e il loro Mister è felice con loro, la loro immagine impressa non è stato il rigore sbagliato dal compagno, ma la vittoria della squadra.

 

Ah come è bello e genuino il gioco del calcio a quell’età, non ci sono inquinamenti o sostanze nocive che li possano inquinare. Mentre vado via, felice di aver visto finalmente la partita della squadra di Mister Luca, sento da lontano l’inizio della partita successiva. Una partita dei grandi, e già sento le prime urla che mi arrivano da lontano: << Arbitro cornuto!>>. Mentre mi avvio alla macchina borbotto tra me e me: << Non fa per me.>>.

 

 

Torino, 01/11/2016

 

Eccoci di nuovo insieme come tutti i Martedì puntuali come la nebbia in Val Padana. Purtroppo mi dispiace essere ripetitivo, non è colpa mia, ma ogni domenica sono costretto come tutti voi ad assistere ai sempre più decadenti e male educativi comportamenti dei genitori, addetti ai lavori e in generale di tutti gli appassionati di calcio, compresi i “Presidenti” di società dilettantistiche. Aggiungo una triste notizia la “scomparsa” di un altro “grande campione del passato” che porta via un altro pezzo di storia di questo fantastico sport. Andiamo con ordine:

 

 

Mercoledì apprendo che “CARLOS ALBERTO”, storico capitano del Brasile degli anni 70’ è morto. Segnò il quarto gol (il primo fu fatto da Pelè su colpo di testa che sovrastò Burgnich), un bellissimo gol, nella finale di “Coppa del Mondo” a Mexico 70, vinta dal Brasile per 4 a 1. Per intenderci la finale contro l’Italia dei Rivera, Mazzola, Riva, Boninsegna, Facchetti, De Sisti,ecc. Ma quello era il Brasile più forte del Mondo: Gente come Pelè, Piazza, Rivelino, Jarzighno, ecc. Finale che venne “rigiocata” da noi ragazzini il giorno dopo, nella famosa strada di quartiere in salita, e che durò un intero giorno. Naturalmente nella nostra vinse l’Italia. Quando Carlos Alberto era un ragazzino e lo videro giocare, gli dissero che era troppo “gracilino” per fare il difensore e poi secondo loro anche “scarso” tecnicamente.

Diventò poi uno dei più forti difensori del mondo, una tripla velocità che lasciava le difese avversarie di stucco e ferme, vederlo volare sulla fascia destra per tutto il campo saltando uno dopo l’altro gli avversari, era uno spettacolo da non perdere. Infatti il suo gol all’Italia venne proprio così, se ne ricorderanno gli “Azzurri” di quella storica finale. Un grande uomo dentro e fuori dal campo. Ma quelli erano altri tempi, i tempi di un calcio più sano, più vero, ragazzi come lui che scendevano anonimamente dalle “Favelas” e giocavano con la palla come un prestigiatore possa fare. Io avevo pressappoco l’età di mio figlio e ricordo bene la notte di quella finale, trasmessa dalla RAI in via eccezionale, naturalmente in bianco e nero, e ricordo ancora quel bellissimo gol, il quarto, con una cavalcata per tutta la fascia imprendibile, e da fuori area esplode un destro che trafigge il nostro portiere. Un altro pezzo di storia che va via e un altro ricordo da aggiungere per me ancora dentro “giovane ragazzino”.

 

 

Lasciamo Mexico 70 e andiamo ai giorni nostri. Sabato mattina vado a vedere una partita della categoria Esordienti. Ore 8,30 del mattino levataccia, mattinata fredda, un solo caffè e una sigaretta, ma felice di vedere una partita, come dicono i più, che è quasi calcio vero perché giocano a 11. Arrivano le squadre con i genitori, allenatori, dirigenti e tutto il caravan serraglio. Ultime raccomandazioni dai Papà ai loro figli: <<….mi raccomando: tira in porta non passarla. …Grinta eh?......Luca ricorda di metterti la maglia termica…>>. Seduti nelle gradinate, iniziano le previsioni dei genitori: <<…Non so. Mi hanno detto che questi sono forti..Speriamo che mio figlio oggi giochi nel suo ruolo…>>. Dopo un po’ entrano i ragazzi in campo per il riscaldamento. Iniziano i conciliaboli dei genitori su come mettere la squadra, chi far giocare in quel ruolo, chi è più in forma e via discorrendo, naturalmente tutte disattese poi dal “Mister”. 

Inizia la partita e iniziano i genitori. Nuvole di fumo dalle sigarette consumate, consigli tecnici, urla di incitazione e invettive contro l’arbitro naturalmente. La squadra di casa è indubbiamente più forte, gli avversari fanno fatica a contenerli, un assedio costante e continuo. Appare subito chiaro che gli “Ospiti” riusciranno a fare ben poco e il gol si respira nell’aria: <<…Lo sapevo. Questi sono forti. Dai grinta ragazzi….. Luca corri togli la palla….Arbitroooo questo è rigore!...>> I primi commenti non mancano dagli spalti.

Tra gli ospiti c’è un ragazzino che gioca in difesa come terzino, si come  Carlos Alberto, ma onestamente fa fatica a stare dietro agli avversari, come dicono i tecnici, è un po’ indietro tecnicamente. Riesce a “ciccare” più volte il pallone, ogni tanto si fa saltare dagli attaccanti e più volte per le sue “bucate” fa esplodere qualche sorrisino ironico ai genitori avversari seduti nelle gradinate. Nel frattempo la squadra di casa ha già segnato ben tre gol uno dietro l’altro. L’ultimo “liscio”, lo fa quando cerca di prendere una palla che rimbalza alta e si fa superare dal rimbalzo goffamente. A quel punto esplode una risata di scherno, dai Papà, che quasi mi offende oltre ad offendere il ragazzo e anche il genitore seduto con loro. Io guardo il ragazzo, nel suo volto sorridente c’è felicità di giocare, lo vedo che corre a destra e manca senza darsi sosta, si impegna cerca di contrastare e anche negli errori, riesce ad essere felice. Insomma: sta giocando! Qualcuno nelle gradinate si azzarda a dire: <<. Va beh. Però certi ragazzi non dovrebbero farli giocare. Anche per loro stessi. Si vede che non è cosa. E’ scarso…>>.

E perché non dovrebbe giocare? Perché gli altri sono campioni?  Lui è felice perché sta appunto giocando e non importa se non è bravo o un “campione” come tuo figlio. Allora incomincio a fare il tifo per lui, in silenzio, ogni volta che entra in azione mi emoziono a vedere il suo impegno e la sua voglia di “giocare”, e poco importa se ogni tanto sbaglia. Nel frattempo non si risparmiano le critiche sia al ragazzo che al Mister che lo lascia in campo. Finisce la partita e bene ha fatto il suo allenatore a lasciarlo in campo per tutta la sua durata, a dargli fiducia a incoraggiarlo e complimentandosi con lui per quell’impegno che tanti suoi compagni, più “forti” di lui, non hanno messo. Si vede che anche il “Mister” viene dalle “Favelas”. La sua squadra ha perso, e anche loro vanno a prendersi gli applausi sotto le gradinate. Mi avvicino alla rete e vedo lui, sorridente, correre verso le gradinate con i suoi compagni: E’ felice, contento, ha giocato e poco importa se hanno perso o se lui ha giocato male. Io lo applaudo, guardo i suoi occhi che brillano e per dire la verità, sono anche un pò geloso di lui, vorrei avere la sua età, la sua freschezza, la sua grinta,  giocare male ma divertirmi. Cosa che oggi, per molti, è impossibile, non è accettabile essere “scarsi”: O si è campioni o non giochi. Questa è purtroppo la filosofia, non scritta, che campeggia nelle scuole calcio delle varie società, in molti genitori e addetti ai lavori. Non mi appartiene questo mondo, mi appartengono i ragazzi scarsi come lui che, magari non diventerà un campione di calcio, ma nella vita sicuramente si.  

 

E a proposito di giocatori “scarsi”: sempre Mercoledì leggo sul giornale “La Stampa”, che il presidente del Caselle Calcio, ha esonerato il Mister della Prima squadra che milita in Promozione, a suo dire, perché non faceva giocare suo figlio ritenendolo “scarso”. Infine (lo riportano i giornali), apprendo mentre scrivevo il pezzo, che una partita di Campionato, Girone B, Settimo calcio contro Victoria Ivest, della categoria Esordienti 2° Anno a 11 appunto, è stata sospesa per una rissa in campo tra allenatori, dirigenti e tecnici delle due squadre, al punto che l’arbitro non potendo fare meglio ha sospeso la gara davanti agli occhi increduli dei ragazzi che stavano giocando e che hanno assistito a questo triste spettacolo, con scambio di accuse da una e dell’altra parte sulle responsabilità della decisione.

Un bell'esempio di educazione e correttezza da parti degli adulti e di correttezza del famoso “Fair Play”, che dovrebbe campeggiare prima di tutto ogni mattina nelle tazzine di caffè di questi “adulti”, che dovrebbero insegnare qualcosa ai ragazzi, ma che invece molto hanno da imparare loro.

Io sono ancora rimasto nel 1970 mentre rigioco, assieme ai miei compagni, la storica Finale di Mexico 70’ Brasile – Italia è ho già preso due gol. Con me gioca anche il ragazzo “scarso”  è gioca anche bene. Dalla fascia destra vedo un terzino che vola letteralmente saltando uno dopo l’altro i miei compagni. Rimango incantato: Carlos Alberto!

Torino, 25/10/2016

 

Premessa per i lettori: Non me ne vogliano per l’autocitazione in prefazione. In questo articolo si devono riconoscere, tutti i ragazzi che hanno deciso di scegliere questo “ruolo”, quello del Portiere, particolare ma importantissimo e unico.

 

Quando ero un ragazzino, e giocavo a calcio, il mio ruolo era il portiere da sempre un ruolo che mi piaceva. I miei idoli erano gente come: Dino Sarti, Cudicini, Rino Rado, Pizzaballa, ecc. Erano i tempi del “bianco e nero” in tv per chi c’è l’aveva, quando la domenica pomeriggio ci riunivavamo nel quartiere ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto”, offerto dalla “Stock di Trieste”, con i grandi “Sandro Ciotti, Enrico Ameri, Sandro Bortoluzzi, ecc., e la sera la “Domenica Sportiva”, condotta da “Maurizio Barendson” e si vedevano solo alcune foto delle partite di seria A, sempre in bianco e nero, per noi era come toccare il cielo con un dito. Poi, dopo, venne “90’ minuto” con il grande “Paolo Valenti”.

 

Le nostre partite si svolgevano in una strada del quartiere, non c’erano le attrezzature di oggi, non c’erano i campi da gioco, strada che era leggermente in discesa, quattro pietre a delimitare la porta, la lunghezza era a secondo dei cazzotti che fra di noi ci davamo. La divisa ognuno cercava di portarla uguale ai compagni, io mi ero comprato pantaloncini e maglietta nera, come il mio idolo Dino sarti. Ah che bei tempi. Quel “calcio” era vero, fatto di sola passione e non c’erano tutti gli interessi di oggi, non si andava accompagnati dai Papà, ma da soli, che c’era vento o sole si giocava fino allo sfinimento: partite che duravano ore intere compresa la pausa dell’acqua. Poi, passai di “categoria”, per così dire, e iniziai a giocare nei tornei delle “parrocchie”, prima però c’era la messa, se no non giocavi, e poi il prete ci benediva tutti e si iniziava la partita.

 

Spesso si incontravano squadre di altri quartieri e di frazioni lì vicino, sempre con le parrocchie, e lì, durante una partita accesissima, venni visto da un osservatore del Catania Calcio, che mi prese e mi portò nella squadra amata della mia città. Ero discretamente bravo e riuscì a giocare nei piccoli pulcini e poi nella primavera della mia amata squadra “Rossoazzurra”, dove li c’era l’altro  mio idolo “Rino Rado”, grande portiere che riusciva a incantarmi con le sue parate. Il mio allenatore mi diceva: “per fare il portiere devi essere un po’ matto, devi avere coraggio e niente paura, devi saper stare solo”.

 

 

Aveva ragione! Il portiere è un tipo “strano”, quasi sempre silenzioso e parla poco con i suoi compagni, si allena in disparte e i genitori sono costretti a seguirlo non potendo stare con gli altri, persino la divisa è diversa da tutti i suoi compagni di squadra. Urla alla sua difesa, ma parla da solo con i suoi “pali”, non ha paura ad uscire tra i piedi, è l’unico che può toccare la palla con le mani e sa di essere l’ultimo baluardo, l’ultima difesa della squadra; e quando si trova da solo a tu per tu, con l’attaccante che gli va incontro, lì deve decidere in un secondo cosa fare, se uscire o stare tra i pali. E’ quello dimenticato durante la partita, salvo ricevere fischi o urla se si fa segnare o magari applausi per la “parata” stupenda che ha fatto salvando il risultato. Insomma di lui si parla sia nel bene che nel male, salvo poi dimenticarselo fino al prossimo incontro.

 

Salto nel tempo e veniamo ai giorni nostri a colori: Domenica scorsa, come sempre, sono andato a vedere una partita di Campionato dei Pulcini. Premetto che non citerò le squadre ne i nomi dei giocatori. Inizio partita e dopo due minuti la squadra ospite con una bella triangolazione libera l’attaccante che con un tiro appena sotto la traversa insacca. Nino (nome di fantasia) il portiere, quasi non la vede la palla e rimane immobile sulla linea. Disperazione del “Mister” che lo richiama a una attenzione massima. Non passano cinque minuti che la squadra avversaria, onestamente più forte, raddoppia su una punizione da fuori area. Nino aveva messo bene la barriera a copertura del palo sinistro, ma il tiro passa sopra la testa dei compagni e va a finire sul “sette”; Nino si alza con uno scatto felino, si invola con tutta la sua grazia verso quell’angolino della porta dove sta per arrivare il pallone, riesce quasi con le punte delle dita a toccarla, ma niente, il tiro è troppo forte e la palla va in rete. Dagli spalti sento i commenti: <<….imprendibile….., ma che è scarso stò portiere…>>,  il Papà impreca contro la mancata parata del figlio e si mette le mani sui capelli come se fosse la finale di “Champion League”. Io vedo gli occhi di Nino che dicono tutto, il suo volto teso, i compagni neanche lo guardano nè inveiscono contro di lui. E’ disperato perché l’ha toccata ma non è riuscito a prenderla o deviarla. Si sente il mondo crollare, la sua squadra sta perdendo per colpa sua, si sente responsabile e le mani incominciano a diventare molli. Secondo tempo il Mister lo lascia in panchina ed entra il secondo portiere; la squadra di casa riesce ad agguantare il pareggio, e lo tiene per tutto il tempo. Nino è li seduto che guarda e dentro di se pensa che forse non era la sua giornata.

 

Nell’ultima frazione del terzo tempo, il Mister lo fa rientrare. Mancano poco più di sette minuti e il risultato tiene ancora sul pareggio e ambedue le squadre cercano di segnare per la vittoria. A circa un minuto dalla fine, l’arbitro decreta un rigore per la squadra avversaria. Dagli spalti, mugugni, proteste, imprecazioni e mano sui capelli del Papà di Nino. Lui si gira e guarda la porta, va un po avanti e quasi per scaramanzia fa la traccia sulla linea, lo vedo teso con la voglia di riscattarsi, di non far perdere la sua squadra; qualcuno ride persino in tribuna: <<….tanto non lo para….>>. E' consapevole che parare un rigore è impresa difficile e fortunosa. Il Mister non dice nulla, lo lascia lì alla sua “solitudine”, persino i compagni che dovrebbero rincuorarlo lo lasciano da solo. E’ lui da solo affronta l’attaccante avversario. Palla nel dischetto, fischio dell’arbitro, tiro. Sapete cosa è un angelo che vola? E’ un ragazzo di circa 10 anni che si alza circa un metro da terra verso destra, si distende con il braccio sinistro, stende la mano e con coraggio e forza devia fuori dalla porta la palla che stava per entrare in rete a mezza altezza. Nino ricade per terra. Non sente gli applausi, le urla di gioia dei compagni, del Mister, del Papà e di tutti i tifosi, non sente i “bravo Purty” dei genitori avversari e gli applausi di tutta la gradinata. No non li sente, perchè dentro di lui il riscatto ha deviato non sola la palla, ma tutta la sua voglia di dimostrare che lui ha combattuto per la squadra.

 

Finisce la partita in parità, con la “prodezza” finale di Nino, che salva la partita e risultato, oltre che il suo riscatto. La squadra va sotto le gradinate a ricevere gli applausi dei genitori, ma lui lentamente, sempre da solo, se ne ritorna negli spogliatoi dove passando il mister gli fa un “cinque”. Per tutti il vero eroe è stato il compagno che ha segnato due gol, vero lui ha parato il rigore ma i gol presi, per tutti, è colpa sua. Io aspetto apposta che lui esca, e quando lo vedo arrivare assieme ai suoi compagni, lo vedo un po più felice dentro di se. Mi avvicino, gli tendo la mano e con una punta di invidia gli dico: <<Sei stato il migliore perché hai avuto coraggio ad affrontare da solo il rigore. Continua così. Le partite si vincono e si perdono insieme, mai da soli, ma tu portiere conserva sempre questo coraggio, perché sarai sempre solo in quella porta>>. Lui mi guardò come può guardare un ragazzino di 10 anni, con gli occhi fra il sorpreso è un po’ di timidezza allo stesso momento. Il Papà mi ringraziò. E mentre andavano via senti dire da Nino: <<Andiamo Papà che devo finire i compiti>>. Che ragazzo!